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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* ---- TUTTI PAZZI PER SHAKESPEARE.Il Bardo diventa global... Durante le Olimpiadi di Londra del 2012 si aprirà un grande festival (di ENNIO FRANCESCHINI).

domenica 14 settembre 2008

Tutti per pazzi Shakespeare

-  Quando Patrick Stewart lasciò la Royal Company per diventare il capitano Picard di “Star Trek” inaugurò
-  una serie di trasmigrazioni tra palcoscenico e grande e piccolo schermo che diedero nuova fama al drammaturgo.
-  Ma ora che David Tennant, star di una serie tv di fantascienza, ha deciso di fare la stessa cosa il pubblico è in delirio
-  e lo spettacolo “sold out” da mesi. Così il Regno Unito trasforma il suo cantore in icona

-  Amleto e il Dottor Who
-  il Bardo diventa global

-  Durante le Olimpiadi di Londra del 2012
-  si aprirà un grande festival shakespeariano

-  di ENRICO FRANCESCHINI *

STRATFORD- UPON-AVON. «Essere o non essere? Questo è il problema ». Cioè se sia meglio vivere o morire, resistere o togliersi la vita. Eppure quando David Tennant, l’attore reso celebre dal personaggio televisivo del Dottor Who, pronuncia la battuta più noto dell’Amleto sul palcoscenico del Courtyard Theatre, nella città natale di Shakespeare, nella messa in scena della Royal Shakespeare Company, il problema è anche un altro: se uno come lui faccia bene ad affrontare il rischio degli oltraggi del pubblico e dei dardi della critica, o se non gli converrebbe piuttosto continuare a prendere le armi nei viaggi intergalattici di una ben collaudata serie tivù. L’uragano di applausi che chiude puntualmente ogni rappresentazione scioglie però quasi subito il dilemma, e i critici sembrano del medesimo parere: questo Amleto in eskimo, maglione a collo alto e berrettino da marinaio, interpretato da una stella dell’intrattenimento di massa, piace molto e piace a molti, tanto che dall’inizio dell’estate sta registrando sold out, tutto esaurito, come un concerto di Madonna, promettendo di andare avanti così fino a metà novembre, per poi trasferire la moderna versione del dramma shakespeariano a Londra. Dove i biglietti, messi in vendita due giorni fa, sono andati esauriti in sei ore per essere poi rivenduti dai bagarini a 500 sterline (600 euro) l’uno.

Per il Dottor Who, bisogna dire, il rischio di un disastroso fallimento era relativo. In primo luogo perché Tennant, pur dovendo la fama internazionale e lo status di star alla televisione (e al cinema, con il quarto film di Harry Potter), come molti attori britannici proviene dal teatro classico: iniziò la sua carriera con la classica gavetta shakespeariana nei piccoli teatri di Edimburgo, e nel 2000 interpretò Romeo in Romeo e Giulietta, sempre con la Royal Shakespeare Company, anche allora a Stratford. In secondo luogo perché gli inglesi, sebbene abbiano comprensibilmente elevato Shakespeare al livello di simbolo ed eroe nazionale, non esitano a tirarlo giù dal piedistallo, a mescolarlo alla vita di tutti i giorni, a farne un prodotto della cultura popolare. Il Bardo, in effetti, oggi è dappertutto, senza che nessuno se ne scandalizzi, anzi: a teatro e al cinema, in tivù e alla radio, in libreria e nelle botteghe di souvenir, nei coffee shop e nelle boutique.

Il fenomeno non è nuovo, dura da anni, decenni, qualcuno dice da anche di più: in fin dei conti sono tre secoli che la cittadina di ventiduemila abitanti sul fiume Avon, duecento chilometri a nord della capitale, dove William Shakespeare venne alla luce (quando gli abitanti erano tremila) e dove giace sepolto, è una meta di pellegrinaggi. La sua casa natale, su Henley Street, è stata restaurata e ricostruita così tante volte che probabilmente il drammaturgo non la riconoscerebbe neanche, ma milioni di turisti la visitano ancora incantati; così come vanno a vedere con un brivido d’emozione la sua tomba nella cappella della Holy Trinity Church, domandandosi chi fosse veramente l’uomo sepolto sotto la lapide con l’ iscrizione misteriosa: «Buon amico, per amore di Gesù trattieniti/ dall’estrarre le ceneri qui racchiuse/ sia benedetto colui che risparmia queste pietre/ e maledetto colui che rimuove le mie ossa».

Stratford, grazie a Shakespeare, è la seconda maggiore attrattiva turistica del Regno Unito, dopo la capitale, e questo passi. Ma il lato più curioso è che questo boom non declini, non affievolisca, casomai continui a crescere e a moltiplicarsi, mettendo il naso letteralmente ovunque. La settimana scorsa, per esempio, il ministero della Cultura britannico ha annunciato l’organizzazione di un Festival mondiale di Shakespeare in coincidenza con le Olimpiadi di Londra del 2012 (il festival inizierà il 23 aprile 2012, anniversario della nascita del commediografo), dislocato in tre città, Londra, Stratford e Newcastle, per sottolineare l’idea che il più grande autore teatrale di tutti i tempi è ormai da tempo diventato una “figura globale”, effettivamente “olimpica”: sicché fra quattro anni vedremo il suo caratteristico profilo stampato anche sui cinque cerchi dei Giochi, dei quali dovrebbe diventare, insieme ai Beatles, al Big Ben, a Buckingham Palace e alla famiglia reale, l’icona. Morale: siamo, e sempre di più saremo, tutti pazzi per Shakespeare.

Il Bardo è un classico, anzi “il” classico, che non invecchia mai e non passa mai di moda. A decretarlo basterebbero i suoi trentotto testi teatrali e i suoi 154 sonetti: è considerato l’autore più venduto della storia della letteratura mondiale, alcuni calcolano che abbia venduto più copie lui della Bibbia. Ma anche chi non l’ha mai letto, anche chi non ha mai visto una sua commedia o una sua tragedia, crede di conoscerlo, sa chi è, cos’è, cosa rappresenta. Shakespeare in effetti è l’Inghilterra, Shakespeare è la lingua inglese ossia la vera lingua globale planetaria, così come nel 2012 Shakespeare sarà le Olimpiadi di Londra. Del resto si può ben dire che Shakespeare è qualsiasi cosa, l’amore, il tradimento, la guerra, la morte, l’amicizia, la commedia, la tragedia, perché nel suo mondo, c’è tutto; e - si è tentati di aggiungere - il contrario di tutto: come ha notato uno dei tanti suoi biografi, in Shakespeare un lettore attento può trovare sostegno per quasi qualsiasi posizione voglia prendere. Lo riconosceva lui per primo, con una battuta ripetuta spesso a sproposito: «Il diavolo può citare le Sacre Scritture per i propri fini».

Paradossalmente, di questo formidabile e immortale tuttologo non sappiamo quasi niente, a parte dove e quando è nato, dove e quando è morto, e le opere che ci ha lasciato. Ma siccome ci ha lasciato solo quelle, e non una sola lettera, non un solo documento, non un solo manoscritto, anche la paternità di queste è stata a lungo e continua a essere oggetto di dibattito, controversie e dubbi. Possibile, è stato ripetuto fino alla noia, che il figlio di un modesto guantaio di provincia, nell’Inghilterra del Sedicesimo secolo, potesse diventare il drammaturgo e poeta più grande del suo tempo, e di ogni tempo? I sostenitori della tesi secondo cui commedie e drammi attribuiti a Shakespeare furono in realtà scritti da altri (tra i quali Bacone, celebre filosofo e scrittore; Christopher Marlowe, altro affermato autore teatrale dell’epoca; addirittura la regina Elisabetta I), sono numerosi. E il mistero sull’identità di William Shakespeare rimane in fondo così fitto che qualcuno ha avuto la bella idea di scriverci sopra un romanzo giallo: W., thriller di Jennifer Lee Carrell (in Italia è uscito qualche mese fa per Rizzoli), che miscelando abilmente verità storica e fantasia creativa tenta di indagare e risolvere l’enigma.

Fuor di finzione, uno specialista di saggi best seller, Bill Bryson, ha ricucito insieme in Il mondo è un teatro, ultima ed ennesima biografia shakespeariana (pubblicata recentemente in Italia da Guanda), tutto quello che si sa o meglio si suppone sul Bardo: i genitori, piccoli proprietari terrieri; la moglie, più vecchia di lui, sposata quando William aveva appena diciotto anni; l’istruzione scolastica; i figli; e poi il trasferimento a Londra, l’apprendistato di attore e scrittore, il successo, l’apparente simpatia per il cattolicesimo, a cui forse si convertì. Siamo certi che nacque, visse e morì un signor William Shakespeare, ma non siamo nemmeno sicuri - nota Bryson - di quale sia la grafia corretta del suo nome; e a quanto pare non ne era sicuro nemmeno lui, poiché nelle firme che ci sono rimaste non è mai scritto allo stesso modo: Willm Skaksp, William Shakespe, Wm Shakspe, William Shakspere, William Shakspeare, dunque in tutti i modi possibili, tranne William Shakespeare, quello che viene universalmentre associato al suo nome.

In compenso gli studiosi si sono ossessivamente concentrati sulle sue opere, contando ogni parola, registrando ogni inezia. Ci hanno informato che i suoi drammi contengono 139.198 virgole, 26.794 due punti e 15.785 punti interrogativi; che nei lavori teatrali si parla 401 volte di orecchie; che l’espressione dunghill( mucchio di letame) viene usata dieci volte, dullard (babbeo) due volte, bloddy(maledetto) 226; che i suoi personaggi menzionano l’amore 2.259 volte, ma l’odio soltanto 183; e che in tutto ha vergato 884.647 parole e 118.406 versi. Sappiamo anche che Shakespeare copiava: un’analisi delle parti I, II e III dell’Enrico IVrivela che, su 6.043 versi, 1.771 furono scritti da autori precedenti, 2.373 da lui ma sulle fondamenta posate dai suoi predecessori e solo 1.899 erano interamente farina del suo sacco; così com’è noto che fra le sue fonti spiccano Plauto, Chaucer, Greene, e anche svariati autori italiani, come Boccaccio, Ariosto, Baldassar Castiglione, Torquato Tasso. «Shakespeare aveva debiti in ogni direzione, ed era in grado di utilizzare qualunque cosa trovasse», osserva Ralph Waldo Emerson in uno dei più noti saggi su di lui: anche questo, in fondo, un segno di modernità.

L’incendio del Globe, il grande teatro all’aperto sulle rive del Tamigi dove andarono in scena la maggior parte delle sue opere, contribuì a coprire di mistero e segretezza la sua vita. Ricostruito un’infinità di volte, ora quel teatro si riempie di nuovo ogni estate presentando tutto il repertorio shakespeariano: la stagione attuale si conclude a metà ottobre, e ad ogni rappresentazione vengono messi in vendita almeno settecento biglietti ad appena cinque sterline l’uno, circa sei euro, nello spirito del teatro popolare del Sedicesimo secolo, quando Shakespeare sedeva tra il pubblico e a Londra infuriava la peste. Le prime edizioni dei suoi testi teatrali vengono vendute all’asta per milioni di sterline, accanite discussioni sull’autenticità di questo o quel ritratto che lo rappresenta continuano a infuriare tra i critici e gli storici, mentre il Dottor Who calca il palcoscenico di Stratford-upon- Avon nei panni di un Amleto in maglione, ma non meno convincente di quello tradizionale. «Morire, dormire, sognare forse», declama David Tennant nel ruolo del giovane principe di Danimarca, tormentato dal fantasma del padre. E il pubblico alla fine si spella le mani dagli applausi, come avveniva cinquecento anni or sono, come avverrà tra altri cinquecento. Perché avevamo, abbiamo e avremo sempre bisogno del Bardo, per ricordarci che «il mondo è tutto un palcoscenico, e uomini e donne, tutti sono attori». Non soltanto il Dottor Who.

* LA REPUBBLICA/DOMENICA, 14 SETTEMBRE 2008 - ripresa parziale.


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