Shakespeare
«Odio e amicizia, non smette di parlare del nostro presente»
Anticipatore. Intreccio di alto e basso nel suo linguaggio. E con Amleto secoli prima di Freud scoprì la psicanalisi
di Laura Zangarini (Corriere della Sera, 14.11.2016)
Amleto? «È uno dei pochi personaggi letterari che vive anche al di fuori del teatro, il suo nome dice qualcosa persino a chi non ha mai visto né letto niente di Shakespeare». Ma vale anche per Shylock, l’ebreo del Mercante di Venezia , o per Otello , tragedia su cui ieri è calato il sipario al Teatro Elfo Puccini di Milano. Nei panni del Moro, Elio De Capitani - con Lisa Ferlazzo Natoli anche regista dello spettacolo -, che insieme a Ferdinando Bruni sarà tra i protagonisti della «Shakespeare Marathon» in programma al Teatro Valli di Reggio Emilia con Sogno di una notte di mezza estate (il 17 e 19 novembre) e A Midsummer’s Night Dream di Benjamin Britten (il 18 e il 20).
A quattrocento anni dalla morte, il Cigno di Avon non smette di parlare al nostro presente, con un linguaggio, spiega De Capitani, «articolato principalmente su due suoni, crudezza e poesia, in cui sangue e violenza, odio e rivalità sono mescolati a purezza e amore, passione e amicizia». Le opere del Bardo come specchio per capire il presente: «Che cos’è la grande saga dell’ Enrico IV se non un monumentale affresco del potere, dei suoi intrighi e dei suoi inganni, valido ieri come oggi? Mi piacerebbe poterlo portare in scena, ma le condizioni in cui versa oggi il teatro italiano non lo consentono... Una produzione con 68 uomini e 2 donne? Impensabile».
Il marcio non è solo in Danimarca. «Vedo avanzare prepotente una società maschile e patriarcale. Negli Usa ha trionfato Trump, uno che ha definito le donne che non gli piacevano “maiali grassi”, “sciattone” o “animali disgustosi”». Tra le tesi di analisi politica del voto americano, «mi ha colpito leggere che Hillary Clinton potrebbe aver perso per aver definito i sostenitori di Trump un “branco di miserabili”: ma ci rendiamo conto della violenza verbale, anche sulle minoranze etniche, a cui l’uomo che insediandosi alla Casa Bianca guiderà l’America, ha fatto ricorso? Abbiamo dimenticato la frase choc con cui, riferendosi a chi difende il diritto di avere in casa fucili o pistole, Trump ha invitato “il popolo del secondo emendamento” a fermare la Clinton?».
Che l’attore e regista stia dalla parte delle donne non è una novità. «Sono cresciuto in mezzo a loro, porto forte dentro di me un lato femminile». Allora perché Otello ? «In effetti sono contento di “svestirmi” del personaggio, sentivo il bisogno di “disintossicarmi”. È stata una fatica pazzesca uccidere Desdemona a ogni replica. Eppure, anche questa tragedia è uno specchio del nostro presente. Noi contiamo le donne che muoiono: ma quante sono quelle picchiate, abusate, ferite, maltrattate, umiliate che non finiscono nelle pagine di cronaca?»
Otello è anche una parabola che parla di scontro di civiltà, di razzismo e di emarginazione. «Vede come ancora una volta torna l’attualità del Bardo? Siamo tornati a costruire muri per separare l’altro, il diverso, le minoranze». Otello è anche «l’inquietante cronaca del malvagio condizionamento psichico di Iago, che spinge il Moro al delitto rendendolo pazzo di gelosia, “il mostro dagli occhi verdi». E ricorda: «Con Amleto Shakespeare si è avvicinato alla psicanalisi secoli prima di Freud...».
Alla domanda su cosa rende le opere del Bardo di Avon tanto intriganti ancora oggi, l’attore e regista risponde senza esitazione: «Il fascino di Shakespeare è che è ancora tutto da scoprire. Anche e soprattutto nel linguaggio - i “suoni” di cui ho già parlato, l’intreccio di alto e basso. Il padre di Giulietta definisce la figlia, innamorata dell’odiato Montecchi, “una sgualdrina stizzosa e ostinata” ma in quelle stesse pagine di Romeo e Giulietta troviamo anche frasi d’amore bellissime, di pura poesia. È con questo Shakespeare che riusciamo a portare a teatro anche i giovani».
Anatomisti dell’illusione
L’intuizione di Shakespeare e Cervantes
il vero saggio è il folle (senza peccato)
Il ReggioParmaFestival celebra il grande drammaturgo con cinque settimane di spettacoli. E coinvolge lo spagnolo, morto nello stesso giorno del poeta
Uno scrittore spiega perché entrambi hanno descritto la bellezza della verità laica
L’uomo crede di sapere quello che non sa, ma ha la chance di risvegliarsi prima della sua morte
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 14.11.2016)
Sul significato preciso delle coincidenze bisogna sempre dubitare, non fosse altro perché tutto ciò che accade nel mondo è una immensa, interminabile, incomprensibile coincidenza. Non dovrebbe fare eccezione nemmeno il fatto che William Shakespeare e Miguel de Cervantes, come stremati da un’identica vita titanica, siano morti lo stesso giorno, il 23 aprile del 1616.
Con l’occasione dell’anniversario, la circostanza è stata ricordata e variamente interpretata. A voler essere pedanti, come giustamente qualcuno ha ricordato, il fatto nemmeno sussiste, perché in Spagna nel 1616 vigeva il calendario gregoriano, mentre in Inghilterra si seguiva ancora quello giuliano, così che in effetti l’autore del Don Chisciotte e quello dell’ Amleto morirono a più di dieci giorni di distanza. Ciò che resta strabiliante nel rapporto tra questi due uomini, al netto di tutte le coincidenze, è il loro assomigliarsi e il loro completarsi.
Di entrambi, ci è difficile farsi un’idea psicologica attendibile: la loro vita è troppo fitta di misteri, e se di qualcosa sappiamo, è come se avessero seminato degli indizi a bella posta per depistare ogni indagine futura. Ci costringono, insomma, a guardare sempre in direzione della loro opera. Nella storia della coscienza occidentale, Shakespeare e Cervantes hanno cambiato in maniera irreversibile la coscienza di ciò che è umano, nella sua estensione e nei suoi limiti.
Prima di loro, un passo avanti di questa portata lo aveva fatto solo Dante. Dante scopre i singoli individui, con il loro carattere e le loro vicende irripetibili, e li promuove alla poesia come mai nessuno aveva fatto. Shakespeare e Cervantes approfondiscono quest’eredità in una maniera davvero dirompente.
Prendono l’uomo di Dante, e lo sottraggono al suo obbligato percorso di salvezza o perdizione. Non è che si ribellino apertamente al cristianesimo. Ma ciò che a loro interessa davvero, nell’uomo, non è la sua propensione al peccato, che si può dare per scontata. Il problema ultimo dell’uomo sarà pure la sua salvezza, ma il problema immediato è che, unico fra tutte le creature dell’universo, egli vaneggia, smarrisce in mille modi il suo legame con la verità, crede di sapere quello che non sa.
Tutto questo si può rappresentare in maniera tragica o comica, perché il tragico e il comico non sono che due maniere parziali di avvicinarsi al mistero dell’uomo: l’animale che esce di senno. Ma questo uscire di senno, questa percezione alterata della realtà, non corrispondono forse, nel senso più pieno, all’avventura dell’uomo nel mondo? Non sono forse il motore di ogni azione romanzesca e di ogni drammaturgia, intese come immagini credibili della vita e dell’ingovernabile varietà dei suoi casi? Non è da pensare, d’altra parte, che Cervantes e Shakespeare, anatomisti infallibili dell’illusione umana, avessero perso il rispetto dovuto alla realtà e ai suoi obblighi.
Con una simmetria che non smette di stupirci, entrambi ci hanno lasciato un vero testamento in materia di saggezza. Perché la loro opera contiene anche questo: la possibilità che ha l’uomo di risvegliarsi, prendere coscienza dei suoi errori, smettere di fingere. È quello che ci raccontano le ultime pagine del Don Chisciotte , e il monologo di Prospero che chiude La tempesta.
Credo che siano le pagine più belle e più profonde mai scritte da entrambi; mi piace immaginare che a scriverle sia stato un solo scrittore che non era né Shakespeare né Cervantes, ma uno spirito potente e inafferrabile, che girava per l’Europa indossando varie maschere.
Don Chisciotte morente, che riprende il nome di Alonso Chisciano e rinnega le imprese, non è diverso da Prospero, che consumata la sua vendetta depone arti magiche e potere. Il primo è sul letto di morte; il secondo sta per ritirarsi a vita privata a Milano, e ci assicura che ogni tre pensieri che farà, uno sarà dedicato alla sua tomba.
Come tutti i grandi messaggi, anche questo punge e consola. Da una parte significa che la saggezza e il risveglio arrivano troppo tardi, e servono solo a morire bene; ma è ugualmente vero, e ricco di significato, che l’essere umano può risvegliarsi prima della morte, quando ancora è dentro la sua vita, non più come ospite ma come padrone.
Quello che ci hanno lasciato Cervantes e Shakespeare è molto di più di una morale, di una filosofia. È una percezione esatta della condizione umana: così esatta che a tutti e due stanno strette le solite, fruste casacche dell’ottimismo e del pessimismo.