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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). --- Il commento del filosofo e teologo greco Origene (di G. Montefoschi)

sabato 7 gennaio 2017

misticismo

Rileggere il canto nuziale della Bibbia

Un amore che è fatto di anima e carne

Il commento del filosofo e teologo greco Origene a un libro dell’Antico Testamento, il «Cantico dei Cantici» (Bompiani), un carme nuziale metafora della teologia cristiana

di GIORGIO MONTEFOSCHI *

      • Origene di Alessandria e Gregorio di Nissa, «Sul Cantico dei Cantici» (Bompiani, pp. 1.565, euro 50), a cura di Vito Limone e Claudio Moreschini

Le parole del Cantico dei Cantici, che la tradizione attribuisce al re Salomone, hanno un doppio valore - come succede quasi ovunque nella Bibbia - ricorda Vito Limone nella importante prefazione alla recente edizione pubblicata dall’editore Bompiani del commento che del Cantico fece il grande teologo e filosofo greco Origene, superando, a detta di San Gerolamo, se stesso: un significato letterale che accompagna la narrazione, e un significato simbolico che trasferisce quello che leggiamo altrove.

Il vocabolo greco paidon, per esempio, significa bambino, ma nel medesimo tempo indica una situazione infantile, ancora acerba, non pronta, dell’uomo. Il Cantico dei Cantici, del resto, scrive Origene nel Prologo della sua opera, non è una lettura infantile: per menti o anime, cioè, che non abbiano raggiunto l’età interiore che consenta di accostarsi a questa «azione drammatica», quale lui la definisce, cogliendone il senso vero.

Di che cosa parla il Cantico, il grande carme nuziale intriso di tutta la bellezza, di tutti i palpiti e di tutte le seduzioni dei sensi, al quale l’uomo interiore potrà accostarsi soltanto nella sua maturità piena? Parla di una sposa e di uno sposo, del desiderio di unirsi che li consuma, e di un amore «che non avrà mai fine». La sposa è l’anima, o anche la Chiesa, vale a dire l’unione delle anime che credono in Dio e aspirano a conoscerlo. Lo sposo è Dio. Ma come è possibile che avvenga questa conoscenza, se l’anima, per quanto matura, è sempre tentata dalle distrazioni del mondo, sempre fragile, sempre sul punto di smarrirsi, anche quando immagina di essere più vicina all’oggetto del suo desiderio?

«Mi baci con i baci della sua bocca», ha esclamato all’inizio: che non mi parli più per mezzo dei suoi servi, dei patriarchi o dei profeti, venga lui stesso a baciarmi sulla bocca. «Perché le tue mammelle» aggiunge subito dopo, osando dare del tu allo sposo, «sono più deliziose del vino e l’odore dei tuoi profumi è superiore a tutti gli aromi». La sposa - spiega Origene - ha gustato fin qui il buon vino rappresentato dalla Legge e dai Profeti; ora aspira a una dottrina diversa da quella alla quale è stata preparata, a un sapere che intravvede e le è ancora sconosciuto e lei immagina sia racchiuso nel cuore e nel petto. Ecco perché dice che le mammelle sono più deliziose del vino. Con la parola «mammelle» - prosegue Origene - intendiamo «la facoltà principale del cuore». Non fu sul petto, e sul cuore, che Gesù fece reclinare la testa di Giovanni, il discepolo che amava più di ogni altro?

Lo sposo, sappiamo, è pastore. «Dimmi, tu, che l’anima mia ha amato», lo implora la sposa, «dove fai pascolare il tuo gregge, dove riposi a mezzogiorno, affinché non accada che io mi ritrovi, come vestita a festa, presso i greggi dei tuoi compagni». Il mezzogiorno è il momento della luce perfetta, senza ombre: la luce nella quale Abramo, alle querce di Mamre, ha visto apparire sulla soglia della sua tenda un essere sconosciuto, dal quale ha appreso, con stupore enorme, che sua moglie Sara, vecchia e sterile, sta per avere un figlio.

La sposa desidera intensamente questa luce perfetta. Lo sposo, però, la ammonisce: «Se non avrai conosciuto te stessa, o buona - o anche bella - fra le donne, esci sulle tracce dei greggi e fai pascolare i tuoi capretti tra le tende dei pastori».

Che cosa vuol dire lo sposo alla sposa, con queste parole che sembrano frenare il suo impeto? Vuole dirle: se non avrai riconosciuto che già mi appartieni, che la causa della tua bellezza viene dal fatto che sei stata creata a immagine e somiglianza di Dio, perderai tempo a cercarmi nel mondo, facendo pascolare i tuoi capretti fra le tende di altri pastori, illusa dai sensi, travolta dal peccato, «sballottata qua e là da ogni soffiar di dottrina verso l’inganno». E se riconoscerai questo, se davvero riconoscerai di essere fatta a mia immagine e somiglianza, allora - fa dire Origene allo sposo in un vertiginoso distacco dalle parole e dai tempi - allora conoscerai mio Figlio: «Nessuno, infatti, conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo». E quella è la verità più profonda; l’unica: il Dio fatto uomo. Sta scritta nei Vangeli, in Isaia, nei Salmi.

Dopo questo ammonimento, la sposa è arrossita per la durezza del rimprovero subìto e il rossore della vergogna. Tuttavia, questo rossore ha abbellito le sue guance, che ora sono molto più belle di quanto fossero prima. «Come sono diventate belle le tue guance, come quelle della tortora», le dice lo sposo, «e la tua nuca è come una collana». Le tortore - spiegherà Origene più avanti - sono degli uccelli molto particolari: possono accoppiarsi solo sapendo che non si accoppieranno più a nessun altro nel corso della loro vita, e rimarranno accoppiate per sempre. Anche dopo la morte. La nuca è il simbolo dell’obbedienza. E il simbolo dell’obbedienza è Gesù.

Adesso, nella azione drammatica si inseriscono altre voci, che non sono né quella dello sposo, né quella della sposa. Dicono: «Oggetti simili all’oro faremo per te, con ricami d’argento». Sono i compagni dello sposo: gli angeli. Gli angeli sono sempre stati vicini allo sposo. Ma non soltanto nella sua breve vita terrena: per esempio quando nel deserto lui fu tentato dal diavolo e loro si avvicinarono per servirlo. Dal principio, lo hanno servito; anche prima che venisse nel corpo. E, insieme a lui, hanno servito la sposa ancora fanciulla, «in attesa che - come scrive Paolo di Tarso nella Lettera ai Galati - giungesse la pienezza del tempo e Dio inviasse il Figlio suo, nato da una donna, nato sotto la legge». Quale sconvolgente notizia. Se la sposa siamo noi - dice Origene, seguendo San Paolo, nuovamente - questo significa che noi tutti esistevamo già prima della creazione del mondo, «perché fossimo santi e irreprensibili davanti a lui, predestinandoci nell’amore a essere suoi figli adottivi». Ci amava prima, insomma. E, poiché ci amava, volle venire nella carne e nel sangue. Essere in tutto simile a noi. E consegnarsi.

Quanto agli oggetti che gli angeli offrono alla sposa (l’Antico, il Nuovo Testamento), questi sono «simili all’oro», perché con «oro vero» si intendono le cose invisibili. La sposa sollecitata dagli oggetti simili all’oro, vorrà conoscere l’oro vero. Ciò avverrà finalmente quando sarà risorta. Come il Figlio. E, insieme a lui, nello stesso giaciglio, godrà di un riposo immenso.

* Corriere della Sera, 04 gennaio 2017


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