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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" ---- "La vendetta di Amleto Principe di Danimarca". Un eroe molto moderno (di Nadia Fusini).

sabato 14 maggio 2022

Shakespeare

AMLETO.

UN EROE MOLTO MODERNO.

il personaggio e le sue diverse incarnazioni

DI NADIA FUSINI*

Non sempre mi sento ben disposta verso i nostri predecessori per il mondo che ci hanno lasciato. Ma ci sono certi atti e fatti che festeggio, come quel giorno del 26 luglio del 1602 quando un tale James Roberts, stampatore, iscrisse all’ Albo della corporazione dei cartolibrai - lo Stationer’ s Register - «un copione intitolato La vendetta di Amleto Principe di Danimarca così come è stato recentemente rappresentato dai servitori del Lord Ciambellano». James Roberts doveva essere un uomo di fiducia della compagnia, aveva registrato altri drammi di Shakespeare. Era a quanto pare un tipografo importante; possedeva i diritti di stampa delle locandine teatrali di Londra e condivideva con un certo Richard Watkins il copyright degli almanacchi e degli oroscopi, insieme alla Bibbia i veri bestseller dell’ epoca. Ma non doveva essere particolarmente interessato a stampare drammi, che non vendevano più di mille copie, e per tale motivo, forse, l’ anno dopo cedette il copyright. O forse no, forse quella registrazione cautelativa, per assicurarsi che altri non pubblicassero una versione non autorizzata, fu una precauzione inutile, e a nulla valse.
-  Fatto sta che nel 1603 comparve presso gli editori Nicholas Ling e John Trundle e per i tipi di Valentine Simmes «La tragica Storia di Amleto Principe di Danimarca, di William Shakespeare; rappresentata diverse volte dai servitori di Sua Maestà nella città di Londra, come pure nelle due Università di Cambridge e Oxford, e altrove». Simmes era uno stampatore molto sciatto e poco rinomato e difatti questa edizione - la prima in quarto - è molto carente, ridotta, diversa da quella che conosciamo, la quale si basa su un testo che comparve a stampa nel 1605, questa volta per i tipi di Roberts, presentandosi come «nuova edizione aumentata quasi del doppio della precedente, secondo il testo autentico e integrale». Autentico e integrale è una vanteria bella e buona; di certo è un testo ampio e nel complesso accurato, ancora differente rispetto a quello che verrà pubblicato nell’ in-folio del 1623, che sembra essere un «trattamento» intermedio.
-  Il punto è che a quei tempi i testi dei drammi non erano considerati testi letterari. Erano semplici documenti teatrali, molti dei quali sono in realtà sopravvissuti per caso alla distruzione cui erano destinati. Della quarantina di drammi che Shakespeare scrisse o alla cui stesura collaborò, soltanto quattordici furono pubblicati lui ancora in vita. Il Tito Andronico, il primo dei suoi drammi a vedere la luce della stampa, comparve senza neppure il suo nome sul frontespizio, altri portavano il suo nome, ma lì mancava un verso, lì cambiava un nome. Non fa meraviglia tale stato di cose. E’ in effetti difficile esagerare la confusione di una stamperia in epoca elisabettiana e giacomiana. Il rumore delle macchine, gli schizzi d’ inchiostro per terra, il puzzo di urina - perché pare che per mantenere umidi i tamponi nottetempo i tipografi impregnassero la pelle di urina umana - mosche dappertutto. Non era facile stare attenti. In più, certi testi arrivavano per via traverse. Lope de Vega racconta di un mestiere tipico a quei tempi, in effetti niente male: c’ era gente prezzolata che andava a teatro e mandava a memoria scene su scene per poi trascriverle e vendere il testo così rappezzato a un’ altra compagnia. Ma anche quando era la compagnia stessa a fornire il testo, non si trattava quasi mai del copione in uso per la rappresentazione, ma di una qualche prima stesura manoscritta dell’ autore, piena di correzioni; oppure la bella copia di un amanuense prezzolato, che aveva le sue preferenze ortografiche, o di punteggiatura, e laddove non capiva la mano dell’ autore non aveva remore dall’ intervenire. Non c’ era in nessuna forma l’ idea della sacralità del testo, non di quello drammatico - ripeto. -Come che sia quel 26 luglio di ormai ben quattro secoli fa, grazie a uomini sconosciuti fu salvato un testo, senza il quale non è retorica dire che la nostra tradizione sarebbe stata differente. Perché Amleto non è solo un mito moderno - ovvero, uno dei grandi eroi inventati nell’ epoca moderna, lui e Don Giovanni; Amleto è una forma dello spirito, è un modo di essere, una consapevolezza, una coscienza. Non a caso da lui è stato coniato un aggettivo: amletico. E’ come se si riconoscesse un’ essenza - l’ amletismo - essenziale, per l’ appunto, a individuare un tratto umano, esistenziale, che comincia a esistere con l’ epoca moderna. Non si trova nella reggia di Tebe, ma in quella di Elsinore, e di Londra.
-  A Londra all’ inizio del ’600 nasce Amleto; ovvero, il prototipo di un eroe che agisce di rinvio. Ritarda. Differisce. E quando arriva all’ azione, è nel modo caotico di un atto inconcludente, con la finale investitura di Fortebraccio, il figlio del nemico, che come un asso pugliatutto arriva e vince la partita. In fondo, non farà diversamente nella realtà l’ amletica regina Elisabetta, quando darà la sua dying voice, il suo voto di morente, al figlio di quella Stuarda, sua nemica, sua rivale, che lei stessa aveva mandato a morte.
-  Non abbiamo prove che Elisabetta mai vide una rappresentazione del dramma, ma io non dubito che lo aveva letto, ne aveva sentito parlare, ne aveva parlato, se non con altri col suo fedele figlioccio Jack, traduttore del Furioso in Inghilterra. E’ certo che lo rappresentarono nel Palazzo reale di Hampton Court per Giacomo di Scozia, quando giunse a insediarsi su quel trono, per avere il quale aveva acconsentito a che la madre venisse giustiziata. E dovette essere una bella rappresentazione, forse con Shakespeare nella parte del fantasma, perché pare che quello fosse il suo ruolo. E Richard Burbage nel ruolo del figlio Amleto.
-  Una rappresentazione senz’ altro interessante, perché per Giacomo Stuart se Gertrude fosse o no complice dell’ omicidio del re consorte era una questione scottante, sua madre la Stuarda essendo stata cacciata dal regno di Scozia con l’ accusa di avere tramato l’ assassinio del marito, quel miserabile Lord Darnley che le aveva ammazzato su due piedi l’ amante, l’ italiano David Riccio, mentre quello le si stringeva alle gonne, quasi lei fosse una Madonna di Misericordia, e urlava: «Madonna, io sono morto, giustizia, giustizia!». Maria era incinta di Giacomo e si prese un bello spavento. Dopodiché si vendicò. Si invaghì del conte di Bothwell, un tipo violento e protervo, il quale come prova d’ amore le fece fuori il marito. Lei non ammise mai di aver comandato il delitto, ma come la madre di Amleto non rispettò le formalità del lutto e nemmeno tre mesi dopo, sposò Bothwell. «Economia, economia», spiega Amleto all’ amico Orazio: «Le pietanze arrostite del banchetto funebre non erano ancora fredde, che furono servite al matrimonio». La storia della Stuarda e Riccio e Bothwell era come ai nostri tempi la storia di Lady Diana e Dodi al Fayed; tutti avevano la loro idea sul tipo di intrigo che c’ era dietro.
-  Certamente anche Shakespeare, il quale però di fronte a Giacomo non poteva schierarsi apertamente con chi sosteneva che la Stuarda, ebbene sì, era una femme fatale, una vera e propria Elena di Troia. Né d’ altra parte poteva fare finta di niente, se non voleva irritare il suo pubblico popolare. Così lasciò tutto nell’ ambiguità. E’ colpevole Gertrude? Sì, no. Il fantasma stesso invita a non indagare. Del resto, a che servirebbe? La donna è sempre colpevole, in quanto madre. E sempre innocente. «Fragilità, il tuo nome è donna», commenta Amleto. Il quale è sì uomo, ma soprattutto figlio. E tale rimane, non progredisce. E’ in quanto figlio che Amleto si iscrive nella galleria degli eroi che inaugurano i tempi moderni.
-  Con Amleto si compie un passaggio come dall’ Antico al Nuovo Testamento; si instaura la nuova alleanza tra la creatura e il suo creatore, tra il presente di chi nasce e l’ anteriorità del suo passato. E’ il mondo del figlio che si apre, dove il figlio salva il padre, e non viceversa, col suo sacrificio. Potremmo avere dubbi sulle virtù redentive di Amleto, visto il suo indugio e il disastro finale; ma si dovrà riconoscere che se Amleto agisce (e lo fa), non è per sé; è per salvare il mondo del padre. Lui di suo tornerebbe volentieri a Wuttenberg, a studiare filosofia. Se resta a Elsinore, non lo fa per vocazione. E’ una missione. -E’ in questa chiave - nel rapporto tra vocazione e missione - che il suo fantasma aleggia sulle decisioni del Wilhelm Meister, quando nei suoi anni di apprendistato lo assume a modello.
-  Sempre il suo fantasma abita la fantasia di Stephen Dedalus, che nel capitolo intitolato a «Scilla e Cariddi» dell’ Ulisse, si arrovella intorno al «mistero della paternità». Parte anche lui dall’ affermazione goethiana che vede Amleto come «il bel sognatore inefficiente che si infrange contro la dura realtà», per fissare a occhi spalancati l’ enigma della "generazione" paterna; una generazione senza corporeità, «uno stato mistico, una successione apostolica». «L’ amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo, questa è l’ unica cosa vera della vita», elucubra Stephen. «La paternità è una finzione legale». Come a dire, il padre è un nome.
-  Ma non è forse nel nome del padre e del figlio che si regge il mondo? (Ancora?) A questo serve Amleto: a ricordarlo. Amleto è il fantasma che agisce questa verità: il padre - vivo o morto - comanda. Del suo nome è fatta la Legge. Insieme, in Amleto affascina una certa svogliatezza. Di suo, Amleto non si illude riguardo al valore dell’ azione. E’ questo aspetto che risorge in certi eroi tipo Rudin di Turgenev: intelligente, perspicace, ma ossessionato dalla propria inutilità, Rudin è il tipo che di Amleto riprende la posa da clown, piuttosto che di principe. Come fa Prufrock di T. S. Eliot, che afferma senza indugio che no, lui non è il principe Amleto. Come fanno certi personaggi cecoviani, che rammentano Amleto per dirne l’ impossibile resurrezione. Ivanov lo confessa: «Mi sento morire di vergogna al pensiero che io possa diventare un Amleto...». Orfani e incerti della propria missione, i personaggi di Cecov - da Ivanov, a Costantino, a zio Vania - riprendono di Amleto la posa apatica; quando Amleto dice che no, a lui non piace il mondo, gli fa schifo, schifo... Nella posizione dell’ uomo problematico risorge in Tonio Kroger, il quale si sente «predestinato e dannato» - appunto come Amleto, quando grida: maledetta sfiga, ma proprio a me doveva toccare di nascere per rimettere le cose a posto? Che è pressappoco quello che dice, quando il fantasma del padre gli chiede la vendetta. Proprio a me? Poi lo fa, ubbidisce. In una delle sue ultime incarnazioni, quella beckettiana di Finale di Partita, Amleto è Hamm e non vendica il padre, ma si vendica del padre. Prima o poi così doveva chiudersi la partita. Che però non è finita.

* NADIA FUSINI, la Repubblica, 19 luglio 2002.


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