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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

mercoledì 1 novembre 2006

INTERVISTA

Il poeta francese venerdì sarà in Italia per ricevere il Premio Europeo per la Poesia: anche gli scienziati e i filosofi ne sono debitori

Bonnefoy: non c’è futuro senza versi

«La mia Europa deriva tanto da Omero quanto da Shakespeare. Il rapporto della varietà delle lingue vive con il passato è essenziale»

«Al Collège de France ho sentito matematici e fisici dire che dovevano la loro capacità di invenzione alle lettere o alla musica»

di Bianca Garavelli (Avvenire, 01.11.2006)

Yves Bonnefoy ha «scientificamente» scelto la poesia. Dopo la laurea in Matematica alla Sorbona, negli anni Quaranta, poco più che ventenne, frequenta il gruppo surrealista e la sua vita cambia direzione. Poi si allontana dal surrealismo, si laurea in Filosofia, segue i corsi di Gaston Bachelard. È un lettore selettivo e partecipe, apprezza i grandi autori di ogni letteratura, ma anche i pittori che hanno segnato la storia dell’arte: da questi interessi poliedrici nasce la sua poesia. Il 3 novembre a Treviso sarà insignito del prestigioso Premio Europeo di Poesia, i cui vincitori accedono automaticamente alla candidatura al Nobel.

Il Premio Europeo di Poesia è un riconoscimento di per sé importante per la giuria di altissimo livello che lo rappresenta. Quanto è emozionante riceverlo?

«Mi sento in effetti molto onorato, molto commosso, perché conosco bene la qualità eminente della giuria del Premio Europeo, ma anche perché è un premio italiano, e questo è un segno di distinzione, dato che mi viene da un paese che prende la poesia sul serio, cosa che è diventata piuttosto rara nel nostro secolo. D’altra parte, è un premio che si vuole europeo e che dunque si interessa alla differenza delle lingue in seno alla ricerca poetica: e niente potrebbe interessarmi di più. Quando si tratta di pensare al futuro della poesia, la domanda sul suo rapporto con la diversità delle lingue vive, ai miei occhi, è la più importante. Come meglio affrontarla, in Francia o in Italia, che ponendosi nel quadro degli idiomi che non hanno smesso, dopo la Grecia e Roma - ma anche dopo le grandi migrazioni celtiche e germaniche - di avere degli scambi fecondi?»

Qual è la sua Europa? Ci sono nella sua biblioteca autori europei che hanno contribuito in modo significativo a formare la sua poesia?

«La mia Europa? Sarei portato, spontaneamente, a risponderle che è quella nata più direttamente dall’antichità mediterranea, l’Europa che deriva dall’Odissea ma anche dalle Bucoliche e da Lucrezio e Ovidio, e subito dopo da Dante e Petrarca. Ma penso allora a Shakespeare, che ha rappresentato tanto per me, e a Hölderlin, e a Yeats. E noto questo: l’Europa, in poesia, nasce meno dal tale o talaltro "grande poeta" e più dai rapporti che gli uni e gli altri poeti intrattengono fra loro, oltre le frontiere. La nostra Pléiade non esiste che grazie a Petrarca, l’Ariosto ha letto i nostri romanzi cavallereschi, come anche Cervantes; e Shakespeare ha letto l’Ariosto in un momento decisivo, Goethe doveva all’Italia tanto quanto alla mitologia germanica, Goethe che ha tanto contato per Nerval, a sua volta innamorato di Napoli, di Virgilio. La grandezza della poesia europea sta in questi scambi ed è in essi che la amo.»

Essere poeta nella società di oggi significa avere un ruolo molto più appartato rispetto al passato: il poeta non può competere con un narratore famoso, non è uno scienziato e non ha neppure il credito intellettuale di un filosofo. Che cosa pensa di questa realtà?

«Io penso che anche oggi la poesia conta più di quanto sembra. È vero che non propone nuove idee, come la filosofia, o non produce delle finzioni divertenti, ma fa molto di più: lavora per preservare l’intensità, il vigore, la luminosità della lingua, e a questo titolo permette allo spirito di mantenere intatto il suo potere di creazione, anche in campo scientifico. Al Collège de France, dove ho insegnato, ho sentito spesso matematici, fisici dire che dovevano la loro capacità di invenzione al rapporto che avevano avuto con delle poesie (o d’altra parte anche con la musica). La parola poetica libera le parole dalle loro anchilosi, che paralizzano tutte le invenzioni e là dove ci sono dei grandi sapienti, dei grandi pensatori, la poesia non è mai lontana.»

Lei ha scritto che si dovrà «varcare la morte» per vivere. Quali suoi libri rappresentano le svolte più significative, le «morti e rinascite» per la sua scrittura?

«"Superare la morte" - convincersi della propria finitudine - per accettare la pienezza della vita, è un desiderio che si può avere, un compito che ci si assegna, ma non è affatto un’esperienza che si possa pretendere di aver portato a termine in maniera soddisfacente. È il voto più profondo della poesia e lo si fa di nuovo, in ogni nuovo testo poetico. Detto questo, ci sono da questo punto di vista delle grandi svolte nella mia scrittura? Sì, il primo libro che ho pubblicato, Douve (1953), che ha messo fine agli scritti precedenti proprio attraverso la scoperta di questa vocazione della poesia, poi Dans le leurre du seuil (Nell’insidia della soglia, 1975), vent’anni dopo, che è venuto in occasione della rinuncia a un certo grande sogno che avevo fatto.»

«Terre intraviste» (Edizioni del Leone) è il suo libro più recentemente tradotto in Italia, da Fabio Scotto, che contiene alcuni inediti: segnano la direzione verso cui si muove la sua poesia?

«In quest’antologia, che devo all’iniziativa di Paolo Ruffilli, c’è qualche poesia inedita, dei sonetti, e in questo, in effetti, c’è qualcosa di abbastanza nuovo per me. Ho tradotto di recente un certo numero di sonetti di Petrarca e adesso sto traducendo tutti quelli di Shakespeare: così ho riflettuto sulle potenzialità di questa forma poetica e cerco di ridare loro vita nel seno di quel verso libero che mi sembrava una condizione necessaria, ai giorni nostri, della scrittura in francese. Ma non è la direzione principale che ho intrapreso dopo il mio ultimo libro, Les planches courbes [Le assi curve, previsto nella collezione Lo Specchio Mondadori] anche questo tradotto da Fabio Scotto. Vorrei avvicinare la poesia al teatro, lasciare che il testo poetico si riempia di voci che vengono da non so dove in me e che si fronteggiano come su una scena.»


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