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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

sabato 11 novembre 2006

A Shakespeare non fa male il Giappone

di Roberto Mussapi *

«As you like it» (Come vi piace), la commedia di Shakespeare nella versione cinematografica di Kenneth Branagh suggerisce alcune considerazioni sull’inesauribile tesoro dell’opera shakespeariana. Alcuni hanno mostrato stupore per l’ambientazione della commedia nel Giappone del primo Novecento, dove viveva una sorta di aristocrazia borghese inglese. Stupisce lo stupore: è assolutamente normale nel teatro la scelta registica di epoche e luoghi differenti da quelli in cui l’autore ha inscenato il dramma. Amleto ha vestito abiti di ufficiali tedeschi della seconda guerra mondiale, di un principe ottocentesco, la spoglia nudità di un personaggio senza tempo in una scena nuda. Perché natura del grande teatro è di rappresentare vicende universali, e di avere dato la vita a personaggi che, generati in un tempo preciso, non abbandoneranno mai più il palcoscenico del mondo.

Ma nel caso di Shakespeare, più ancora che negli altri grandi drammaturghi elisabettiani e nei tragici greci, questo spostamento cronologico e spaziale è quasi intrinsecamente richiesto dalle opere. Shakespeare rifonda la tragedia nel supremo dramma elisabettiano, e inventa la commedia moderna: da satira sociale, intrattenimento critico, antenato pur nobilissimo del cabaret, quale era anche nei grandi autori greci e romani, diviene prodigio del sogno, incantesimo fiabesco: «Il sogno di una notte di mezza estate», «Molto rumore per nulla», «Come vi piace», nulla hanno a che vedere con la critica di costume, lo spirito canzonatorio e corrosivo delle opere di Aristofane o Plauto, ma portano in scena il sogno nelle sue volute capricciose e incantevoli, la fiaba. Inventa una geografia immaginaria e le storie sono rigorosamente anacronistiche: troviamo un duca ad Atene, un’isola caraibica, il cui abitante si chiama infatti Caliban, collocata più o meno tra Tunisi e Napoli, luoghi ove si incontrano personaggi dai nomi latini e rinascimentali, con prevalenza di giardini, boschi, dove il gioco delle ombre può suscitare più facilmente gli incantesimi.

L’idea di Branagh -a mio parere il massimo regista shakespeariano nel cinema- di ambientare in un Giappone fiorito, incantato, mutuato dalla pittura di Hokusai, la vicenda di un’identità scambiata, una storia d’amore la cui trama si basa su un innocente e piacevole inganno, è geniale: ha trovato il luogo e il tempo che l’autore aveva previsto per quella commedia, anche se li aveva conosciuti solamente in sogno, e indica la vera collocazione di ogni opera shakespeariana: ovunque e in nessun luogo.

* Avvenire, 11.11.2006


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