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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO ---- Scritto nel "modo dell’amore", l’ultimo libro di Nadia Fusini, "Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare" (di Giuseppe Montesano, Le passioni secondo Shakespeare).

mercoledì 8 settembre 2010

Le passioni secondo Shakespeare

Il nuovo saggio di Nadia Fusini svela i meccanismi con cui il grande scrittore mette in scena l’animo umano grazie alla finzione del teatro

di Giuseppe Montesano (la Repubblica, 08.09.2010)

Chi è Shakespeare, il misterioso e immenso continente dove la poesia si è fatta più reale della realtà? Di lui non sappiamo nemmeno che faccia avesse. Quando nell’800 fu esposto il suo ritratto più attendibile, il rifiuto fu unanime: aveva le labbra troppo "lubriche", la faccia era troppo "licenziosa", la carnagione troppo scura, i tratti somatici troppo da "italiano" o da "ebreo" e troppo poco britannici.

E l’orecchino! In quel ritratto Shakespeare porta un orecchino d’oro che gli dà un’aria davvero troppo da avventuriero. E anche nella sua opera tutto sembra troppo: la vita, la morte, l’amore, i sogni, il dolore, tutto nell’ambigua stregoneria evocatoria di Shakespeare sembra cantare per far smarrire lettori e esegeti. Ma è proprio dentro questo traboccare che toglie il fiato che si immerge l’ultimo libro di Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare (Mondadori, pagg. 496, euro 22) riemergendone con uno Shakespeare per noi, qui e oggi.

La Fusini apre Di vita si muore dichiarando di averlo scritto nel "modo dell’amore", vale a dire nell’ebbrezza scaturita dalla lettura quotidiana di Shakespeare, e confessando che il saggista ha qui preso le vesti di un interprete rabbinico: «Qui si esercita un modo di lettura che del midrash ha l’andamento; ovvero il movimento di chi cerca il significato di quel che è scritto risolvendo qualsiasi domanda o questione, che dallo scritto possa sorgere, dentro il testo stesso».

Da questo voltare le spalle a una critica accademica nasce l’oggettività innamorata che divampa in Di vita si muore, una oggettività che può concedersi l’accensione passionale e l’illuminazione imprevista perché sa che bisogna fondarle sull’acribia filologica e sull’acume critico. Al centro del libro c’è l’intreccio tra le passioni e la ragione sondato in spirali continue, spire che si avvolgono intorno al loro oggetto per spremere da esso verità, e che affondano l’opera di Shakespeare nelle contraddizioni della sua epoca non per appiattirne l’unicità ma per farla brillare in tutta la sua energia. Così se è il rapporto tra corpo e linguaggio che si accampa nel cuore del racconto conoscitivo della Fusini, in esso emergono in dettaglio anche gli influssi culturali dei quali si nutriva Shakespeare, da Aristotele al Principe, da Galeno al Leviatano, dall’Edipo a Colono ai Passion Plays del medioevo cristiano, da Marlowe alle Anatomie medico-morali degli elisabettiani.

In Di vita si muore scopriamo così uno Shakespeare che cita da The Anatomie of the Minde di Thomas Rogers, e che in Amleto richiama il trattato On Melancholy di Timothy Bright; ci appare un poeta che conosce bene, e indaga, le controversie tra Lutero e i cattolici; capiamo meglio quanto Shakespeare sia prossimo al pensiero della nuova scienza di Hobbes e Spinoza; e vediamo come questa materia divenga memorabile teatro.

Il miracolo di questa metamorfosi che trasforma le idee e le ideologie in persone e vite non lontane dalla equanime ferocia di Dostoevskij sta nella natura doppia del teatro, il teatro che, come il romanzo, mette in scena la finzione per smascherarla, crea una dialettica tra bene e male sottratta alle ovvietà morali e giunge a quel culmine conoscitivo in cui l’emozione getta un fascio di luce sul male non per fingere di annullarlo, ma per scoprirne le ambiguità. E lo strumento sovrano di tale operazione è per la Fusini il linguaggio, il luogo della metamorfosi e della conoscenza in Shakespeare: «E’ l’invenzione di una lingua che non è dialettica né discorsiva, ma è tesa nell’irriducibile contrasto dell’ossimoro, figura connaturata a questo linguaggio teatrale che nega la sintesi e con essa ogni idea di armonia degli opposti, operando piuttosto per congiunzioni di pensiero illegittime... Sì, questa lingua "sforza" le parole, le violenta... E’ così che un linguaggio, che dispera dell’ordine, inventa altri gradini per conquistare la torre di Babele. La sua disperazione è la sua forza, la sua povertà la sua grandezza».

Ecco indicata, e stupendamente, la verità di Shakespeare, il luogo dove lo scontro tra passione e ragione si duplica nello scontro tra tragico e comico e tra giusto e ingiusto, il luogo in cui è possibile porsi domande sul mondo che è out of joints, "fuori dai cardini", in una lingua che per raccontare la nascente Modernità le offre la recita della sua lacerazione nella lingua stessa della lacerazione.

Allora i drammi e le tragedie che la Fusini legge e interpreta in Di vita si muore si illuminano di una luce nuova, e le intuizioni abbondano: in Macbeth sono la droga della paura e il desiderio di ignoranza di Macbeth come salvezza dalla lucidità del pensiero; in Amleto è l’indagine sottile sul Tempo a partire dal "frattempo", la pausa in cui la vicenda è un fantasma immaginato dalla mente di Amleto; in Otello è una lettura che andrebbe citata riga per riga: dall’intuizione di Iago come uomo nuovo della Modernità che si fonda sull’Economico e "stupra l’anima" di Otello, a quella di Iago che "fa teatro con le parole" come Shakespeare; dall’intuizione magnifica che è Otello e non Iago il vero traditore dell’amore, a quella che nell’Otello le parole tradiscono se stesse; da quella che vede Otello naufragare perché considera l’amore secondo il "principio di proprietà", a quella dell’amore di Desdemona come forza al di là del bene e del male borghesi.

Alla fine non c’è dubbio: Di vita si muore non è solo un libro bello, è anche un libro importante. Le grandi opere letterarie vanno interpretate attraverso se stesse, e non siamo noi a svelarle ma semmai sono loro che ci svelano a noi stessi: mettendoci senza riguardi di fronte a ciò che non avevamo la forza o la passione per vedere. Quanto costa andare verso le verità che Shakespeare o Kafka o Baudelaire ci mostrano nel terrore e nella pietà? Niente di meno che l’anima, ecco cosa chiede la letteratura. Ma in cambio offre qualcosa di impagabile: una brace accesa nella notte dell’anima, un sovrabbondare di vita nella nostra miseria quotidiana.


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