Il dramma del vero in Shakespeare
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 28.10.2010)
La Parola che si fa carne e vive nell’uomo è il culmine del mistero «Per Shakespeare», dice Nadia Fusini nel primo capitolo del suo bellissimo libro dedicato a Shakespeare, intitolato Di vita si muore (Mondadori, pp. 496, 22)-e e organizzato in cinque atti a testimoniare l’impegno drammatico che l’Autrice nello scriverlo ha speso - «il teatro ha a che fare con il miracolo dell’incarnazione».
Fra tutte le idee, le ipotesi, le suggestioni che colmano le pagine della Fusini, questa mi sembra l’idea centrale, la vera idea chiave attraverso la quale orientarsi in quel fitto groviglio che è il mondo delle passioni custodite nell’anima dell’uomo, alle quali Shakespeare, non da filosofo, non da moralista, offre lo spazio dinamico dell’atto, della vita e della rappresentazione.
L’incarnazione. In un secolo che è religioso, ma non ha più certezze; un secolo «in cui si assiste alla rivelazione che i corpi celesti non sono perfetti e immutabili; in cui la nuova astronomia vede corruzione e mutamento nelle regioni più remote dei cieli», l’eroe elisabettiano non può che rivolgere lo sguardo a se stesso. Si guarda, come un Narciso che sa di non potersi ingannare, in uno specchio di superficie finché questo specchio non si rompe per un sasso che qualcuno (non lui: il messaggero del Male) alle sue spalle gli tira, e di colpo vi precipita dentro. Lì, in quell’abisso, egli scopre la passione, «trova la sua anima». E, nell’attimo in cui sprofonda, riemerge incarnato nell’«ospite sconosciuto» che ciascuno di noi nasconde in sé.
Così, Bruto, l’eroe che decide di salvare la libertà e di uccidere il tiranno, scopre l’insostenibile tensione che si crea nell’anima in quell’interim eterno - vero luogo della tragedia - che corre fra «il primo impulso che muove l’atto» e l’esecuzione dell’atto stesso, e se ne tortura.
Amleto scopre e conosce la forza brutale della libido, che vede incarnata in primo luogo in sua madre e poi, quale peccato originale, in tutte le donne, compresa l’innocente Ofelia; scopre e conosce il peso di sentirsi Figlio inseguito dal Padre assassinato che gli chiede vendetta; scopre la propria impotenza, e in questa l’inefficacia tutta luterana «di ogni opera e di ogni agire».
Otello conosce la maledizione della gelosia: l’inferno terreno costituito dalle immagini sconce e terribili alle quali diamo carne nell’immaginazione quando sospettiamo il tradimento; e il tradimento che lui stesso, sospettando di Desdemona, fa dell’amore.
Credendo di essere Dio, Re Lear non si accorge che Cristo, suo Figlio, «ha le fattezze di Cordelia», e non essendo più padre, più re, più Dio, conosce, insie me alla empietà degli esseri umani, l’immensa solitudine di chi si sente abbandonato da Dio; ma poi, al culmine della follia che lo devasta, nel cuore di quelle tempeste in cui errabondo vaga, conosce il miracolo della grazia che altro non è se non la pietà cristiana: l’unica risorsa che pur nella sventura ci rimane e consiste nel condividere il dolore del nostro prossimo.
Macbeth - l’uomo ferito, come Edipo, dal proprio atto - scopre la violenza del Male; la forza del Male che ci fa perdere la ragione; l’orrore di un Male di cui non sappiamo la provenienza, del quale potremmo addirittura dichiararci incolpevoli per come irride la nostra volontà, ma che ciononostante ci devasta la mente; infine, nell’ingordigia delle tenebre in cui affonda, conosce la paura.
Da dove viene il Male? Siamo responsabili del Male che ci travolge? L’umanità non è che una folla di esseri perduti schiavi del tempo? Dio esiste? E dov’è? Queste sono le domande fondamentali, che si agitano nel teatro dell’anima dei personaggi di Shakespeare, si incarnano nel dissidio fra la ragione e la passione, e in quello sublime della Parola.
La Parola, infatti, la Parola che si fa carne e vive nell’uomo per la redenzione dell’uomo - come sa magnificamente spiegare Nadia Fusini, in un libro che possiede uno sguardo sulla letteratura, sulla filosofia e le scienze umane che va ben oltre il Cinque e il Seicento - è la vera incarnazione, il culmine dell’incarnazione e del mistero.
Ecco il motivo per il quale, molto spesso, nel teatro di Shakespeare, abbiamo l’impressione che le parole si contraddicano, oppure che ci respingano, oppure che ci chiamino a una altezza dalla quale ricadiamo indietro, condannati, dopo aver intravisto la luce, all’esilio.
Perché le parole che contengono la verità sono, e devono restare inattingibili. È così. Noi proviamo a scandagliarla la Parola; ci illudiamo di comprenderla, come a d esempio ci succede quando leggiamo le Lettere di San Paolo. Ma poi, ogni volta, dobbiamo riaprire il libro, riconsiderarlo quel significato che prima pareva chiaro e ora ci pare oscuro. E questo, all’infinito.