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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). ---- IL CANTICO DEI CANTICI? Una metafora politica (di Marco Roncalli).

sabato 10 maggio 2008

Un saggio di Massimo Giuliani vede nel libro biblico non solo la teoria dell’amore, ma anche una visione politica, legata al tema di Israele disperso tra le nazioni

Il Cantico dei cantici? Una metafora politica

di MARCO RONCALLI (Avvenire, 10.05.2008)

Che con straordinarie metafore celebrasse l’intimo rapporto d’amore tra Dio e il popolo di Israele, era piuttosto noto. Che nonostante la consuetudine di citarlo in occasioni sponsali non potesse venir considerato un inno all’amore coniugale - vista l’assenza di preoccupazioni procreative o di allusioni al vincolo matrimoniale ­anche. Idem quanto alla presenza dell’Eterno nei codici della parola amore (e leggasi pure, oltre il termine eros, ciò che ruota attorno a philìa, agàpe, ecc.). Né può essere considerata una novità la teoria dell’amore «esodo da sé di ciascuno dei due per essere dell’altro» (per dirla con il teologo Bruno Forte). Meno battuta è invece la pista che porta a leggere questo dialogo straordinario -cioè il Cantico dei Cantici - come «metafora teologico-politica» applicata al tema di Israele disperso tra le nazioni. Che è esattamente quanto proposto in questo nuovo saggio dedicato da Massimo Giuliani allo Shir haShirim, nel solco di una comunque solida tradizione che dai targumim (traduzioni/parafrasi aramaiche del testo) ai coevi midrashim (in buona parte raccolti nello Shir haShirim Rabbà), da Rashi - grande commentatore del XII secolo - a molti pensatori contemporanei, arriva sino a noi.

L’opera è divisa in due parti e lungi dal focalizzarsi su aspetti filologici e storico-letterali, attribuisce al Cantico un ruolo di pilastro portante, centrale, nell’ideale arcata «creazione-rivelazione­redenzione » che alza la storia della salvezza. La prima parte rielabora un seminario tenuto lo scorso anno mantenendo il registro della conversazione orale con parecchi rimandi alle interpretazioni sviluppatesi entro il giudaismo rabbinico o nella cultura ebraica moderna e tenendo sullo sfondo il lavoro di Franz Rosenzweig La stella della redenzione. La seconda, valorizzando la traduzione del Cantico di Daniele Garrone (riportata in appendice al volume), scandaglia, oltre la grammatica dell’eros, il paradigma dell’esilio ma sino ad analizzare le prospettive aperte dal superamento della condizione diasporica o della sua negazione nella complessa dimensione politica, fra sionismo e antisionismo, oltre le elaborazioni ancorate alle prerogative messianiche. Per considerare infine in chiusura un’emblematica poesia di Paul Celan: Todesfuge, scritta nel 1945, dopo Auschwitz, nella quale la Shulamita del Cantico è contrapposta alla protagonista del Faust goethiano Margarete.

Tornando alla parte più organica del libro, Giuliani, dato per scontato dietro ogni nudità il problema dell’io, dell’identità, e dopo averci ricordato che nella Bibbia a dire ’io’ è Dio, s’interroga su come sia permesso o proibito interpretare il Cantico, poi sulle ragioni per le quali esso è finito nel canone biblico tanto ebraico quanto cristiano, andando oltre la risposta che poggia sull’attribuzione al re Salomone e piuttosto sottolineando dentro l’esilio di Israele un pegno storico e una riprova della sua elezione.

E, proprio nella convinzione che il Cantico finisca per abbracciare il problema teologico-politico per antonomasia del popolo ebraico, l’esilio e la sua redenzione, fonde i due interrogativi in un’unica questione. Per la cui soluzione prova anche ad identificare i protagonisti del Cantico. Che per certi autori poi non sarebbero così chiaramente l’amante e l’amata.

Per Amos Luzzatto, ad esempio personaggio reale sarebbe solo, lei, la ragazza, una sognatrice per la quale il ’noi’ della storia amorosa sarebbe un prodotto dell’immaginazione. Altri autori invece vedono un triangolo, aggiungendo al noi dell’amante e dell’amata , le cosiddette figlie di Gerusalemme, le figlie di Sion: perché l’amore non è mai evento privato; perché l’amore di Dio per Israele, pur esclusivo, è al servizio del resto dell’umanità.

Se però, come Giuliani riconosce, resiste in ogni caso la definizione di Rosenzweig pronto a vedere nel Cantico «il nucleo e il centro della rivelazione» - pur prendendo seriamente i divieti dei rabbini che impedivano interpretazioni letterali del dialogo, resiste anche la difficoltà di leggere il testo solo come allegoria degli ebrei in galut, in esilio, (proibizione che è - tra l’altro - un’eccezione alla regola generale dell’ermeneutica rabbinica contemplante la lettura simbolica proprio dopo quella ’alla lettera’). A meno che proprio la chiave di lettura teologico-politica apra la porta su qualcosa in più del dramma storico dei senza patria, indicando la nostalgia di un centro perduto e il dubbio sulla presenza di Dio nella vita del suo popolo.

Sentimenti celati, tra sogni e sofferenze, nei versetti dello Shir haShirim che nel tempo dell’esilio non spengono mai nel popolo il desiderio del ritorno. A Sion.

-  Massimo Giuliani
-  EROS IN ESILIO
-  Letture teologico-politiche del «Cantico dei cantici»
-  Medusa. Pagine 152. Euro 14


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