Se studiare Shakespeare migliora la diagnosi
Varie ricerche su Medical Humanities segnalano la particolare capacità che aveva il Bardo, nelle tragedie e commedie, nel descrivere l’intreccio mente-corpo. Sarebbe un’ottima lezione sulla psicosomatica per i futuri clinici
di Maurizio Paganelli (la Repubblica/Salute, 24.01.2012
La letteratura a sostegno di diagnosi e cura in medicina: e chi meglio di William Shakespeare, allora? «Molti dottori sono recalcitranti nel mettere in relazione disturbi emotivi con effettivi sintomi fisici. Questo porta a ritardi diagnostici, moltiplicazioni di esami e test, trattamenti inappropriati. Potrebbero diventare migliori medici studiando Shakespeare e le correlazioni mente-corpo da lui descritte», così, nelle conclusione di una ricerca apparsa di recente su Medical Humanities (gruppo British Medical Journal), afferma Kenneth Heaton, gastroenterologo britannico.
Heaton ha analizzato in modo sistematico un totale di 88 opere, 42 del Bardo, le altre dei suoi contemporanei, con attenzione alla descrizione dei sintomi psicosomatici. Nessuno ha mai descritto o capito meglio di Shakespeare tali sintomi. Mancanza di respiro e forti emozioni; vertigine/debolezza e aumentata sensibilità al dolore; stordimento e languore; stanchezza/fatica cronica e stato ansioso o stress; disturbi dell’udito e del sonno legati ad eventi traumatici. Freddezza, svenimento, debolezza sono usati da Shakespeare con maggiore precisione e più frequentemente di altri autori della sua epoca. La ricerca non è la sola che segnala il link tra medicina e tragedie e commedie shakespeariane.
Sempre su Humanities Medicine, il professore di letteratura inglese Eric Langley (suo Narcisismo e suicidio in Shakespeare) ha affrontato il tema, assai pertinente in epoca di peste, del contagio e dell’infezione nei drammi del grande poeta. Non solo: lo psicologo Murray Cox usa da tempo Shakespeare come strumento psicoterapico. «Difficile che un medico non ne rimanga attratto... perché sembra sentirle e capace di farcele sentire», commenta un altro medico, Theodore Dalrymple sul Telegraph. E The Shakespeare Blog, a dimostrazione della tesi, si sofferma sul Macbeth. Primo commento sul blog: «Cosa i medici possono imparare da Shakespeare? Voglio sperare, un po’ di umanità».
La docente di Lingua e letteratura inglese: "Modernissime le sue intuizioni"
Quel dottore dell’anima tra scienza e passione
di Nadia Fusini (la Repubblica/Salute, 24.01.2012)
Forse non tutti sanno che Shakespeare aveva un genero, di nome John Hall, che era medico. Pare avesse studiato medicina in Francia, dopo aver frequentato il Queen’s College di Cambridge. A Shakespeare doveva piacere quel genero, almeno quanto amava la figlia maggiore, Susanna, se è vero che li nominò esecutori testamentari. Immagino che con lui discutesse di medicina, e in particolare del legame tra psiche e soma, che non poteva non interessargli, visto che di passioni della mente tratta il suo teatro. John Hall da parte sua aveva intenzione di pubblicare le sue osservazioni "on english bodies", e cioè sui corpi inglesi, e sulle cure "sia empiriche che storiche" sperimentate sui suoi pazienti, "in casi disperati".
Shakespeare era uno scrittore, e non un medico, ma come riconoscerà Freud passeggiando sulle Dolomiti con il giovanissimo Rilke, un poeta arriva a profondità di conoscenza della psiche insuperate dalla scienza medica. E coglie con immediata intelligenza il fatto che corpo e anima sono inscindibili e gli affetti, cioè a dire le perturbazioni della mente, infettano entrambi.
L’uomo è una specie di piccola trinità di memoria, ragione e volontà, come ben dimostra Amleto, e sarà bene che si conosca nei suoi impulsi e analizzi i propri affetti. E se finora si è predicato che l’uomo naturale deve rispecchiarsi in Dio e prendere a modello quell’immagine sublime, è bene anche che quella specie di "teologia clinica" che nei loro trattati sulle passioni invocano i pastori puritani si misuri non su un uomo ideale, ma sulla realtà dell’uomo naturale, così com’è. L’uomo si conosce con l’uomo, non specchiandosi in Dio. Serve uno studio oggettivo dell’ordine naturale, sia nel microcosmo uomo, che nel macrocosmo società.
Shakespeare articola questa conoscenza nel modo drammatico di un teatro, che mette al centro dell’agone lo scontro antico tra ragione e passione, e lo rinnova. Le fonti filosofiche del dibattito sono Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso insieme con Plutarco, Seneca, Cicerone, Boezio. Le fonti mediche sono Ippocrate e Galeno. È un patrimonio di sapere, dove è difficile separare l’astrologia dalla medicina, l’etica dalla filosofia e dalla teologia, come nel caso di De proprietatibus rerum di Bartholomeus Anglicus, riproposto all’epoca da Stephen Batman, studioso e bibliofilo. O del trattato di Sir Thomas Elyot, The Castell of the Health, la cittadella della salute. O del Trattato della melanconia di Timothy Bright. O dello specchio degli umori di Thomas Walkington, The optick glass of humours... Questo e molti altri trattati Shakespeare conosce. Shakespeare non è un filosofo, è un teatrante e arriva a conoscere la mente umana nel modo drammatico, in quei veri e proprii psico-drammi, dove porta in scena il profondissimo innesto dell’anima nel corpo, tra psiche e soma per l’appunto cogliendo con modernissimo intuito gli intrecci.