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La Sala

L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini** - progetto e selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 6 febbraio 2006 di Emiliano Morrone
SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and (...)

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> L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" ---- Amleto, primo intellettuale della modernità inquieta (di Sergio Perosa)

lunedì 7 maggio 2012

Amleto, primo intellettuale della modernità inquieta

Si trova in Verdi, ispira Freud, è un «arrabbiato» del ’900

di Sergio Perosa (Corriere, 06.05.2012)

Shakespeare è innanzitutto uomo di teatro, autore di copioni adattabili ad ogni circostanza o evenienza, per l’albagia di corte come per l’universo carcerario. Tutto il Mondo è un Teatro, e il teatro è per lui specchio e metafora del mondo. Scrive in splendidi versi anche nei momenti più truci, ma la poesia viene come per crescita spontanea, compenetrata al gesto teatrale.

Già nell’in-folio postumo che nel 1623 raccoglieva i suoi trentasei drammi, l’amico-rivale Ben Jonson aveva scritto che non era solo «di un’epoca, ma per tutti i tempi». Mai previsione fu più azzeccata. Per quattrocento anni Shakespeare è stato intimo e centrale alla nostra cultura.

I romantici ne fanno il loro padre per la scoperta della soggettività, del sogno e della fiaba, delle passioni estreme. In Germania e Francia, Amleto è visto come il primo intellettuale moderno, insoddisfatto e inquieto. Nell’800 Shakespeare diventa una Bibbia ed è rintracciabile nelle grandi creazioni epiche, in Wagner, Verdi, Melville (Moby Dick non sarebbe com’è senza la sua radicata presenza).

Freud scopre in lui presupposti ed esempi per la sua psicoanalisi: Amleto come Edipo, vittima di fissazioni, turbe e complessi; e come tale viene da allora rappresentato. Joyce lo vede coinvolto nel dramma del rapporto fra padri e figli e della reciproca perdita; nel secondo dopoguerra, per continuare con lui, Amleto sarà uno degli Angry Young Men, dei «giovani arrabbiati».

Dal ’900 a oggi Shakespeare, secondo il titolo del libro di Ian Kott, è nostro contemporaneo; non c’è forma di dramma in cui non si ritrovi la sua presenza ed ispirazione - compreso, per paradosso, quello della incomunicabilità o del corpo. Una tragedia di sangue e vendetta come Tito Andronico, lo stesso Macbeth e Re Lear, sono già teatro della crudeltà.

Le sue grandi campiture di temi storico-politici - che istruirono Brecht, senza emozionarlo - affascinano il nostro tempo: i drammi di storia inglese, Riccardo III, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Macbeth, lo stesso Amleto, Re Lear, hanno al centro l’attrazione, la conquista, la perdita, le angosce e le disillusioni del potere, con una carica di emozione poetica e teatrale che altrove non si ritrova (in un malandato teatro di Brooklyn ho visto un Macbeth in giapponese dove la foresta di Birnam era un fremito di verdi bambù: teneva benissimo la scena e si capiva anche senza comprendere le parole). In questi drammi, e segnatamente in Misura per misura, il Potere è quasi sempre collegato al sesso, che serpeggia fra i protagonisti come impulso motore e insieme disgregatore: una consapevolezza e connessione che è della nostra realtà e del nostro teatro.

Sesso, amore e morte sono le grandi componenti di Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra: nell’uno l’irresistibile passione giovanile, quella matura eppure esaltante oltre ogni perdita terrena nell’altro. Quest’ultimo dramma è già campito sul grande contrasto fra Oriente e Occidente, e nei vari casi le contrapposizioni drammatiche sono adattabili a circostanze storiche e sociali diverse, di altri luoghi e tempi: ebrei e palestinesi, samurai e contadini.

È successo in tutta una serie di produzioni teatrali e di film. Shakespeare affronta poi l’inquietante presenza fra noi del diverso, dello straniero, dell’«altro»: l’ebreo conculcato eppure rivendicato nel Mercante di Venezia, il Moro svilito e tradito, regredito da acculturato di rango alla condizione di «barbaro» in Otello, la donna umiliata e offesa eppure fino all’ultimo ribelle, forse nascostamente, nella Bisbetica domata. Sono drammi in cui si prefigurano i modi di repressione tipici dei regimi totalitari del ’900, ed hanno permesso continue forme di attualizzazione.

Completa il quadro, nella Tempesta, la precoce percezione del colonialismo e dell’abnorme rapporto che si instaura fra colonizzatore e schiavo: Prospero che riconosce Calibano come parte oscura di sé. Se ne sono avute diverse riscritture dall’altra parte (Aimé Césaire in testa, Une tempête) nei Paesi post-coloniali, in Africa, India, Estremo Oriente. Sembrano fruibili in ogni parte del mondo.

Questi temi riecheggiano nella sensibilità e nel teatro dell’ultimo mezzo secolo, dove pure riverbera il nichilismo assoluto, quasi insopportabile, di Re Lear. Lo stesso tema della follia, che Shakespeare inscena ed esplora nelle sue varie forme - reale, indotta, simulata, per disperazione o per finta, di buffoni o poveri derelitti allo stremo - apre le porte al teatro dell’assurdo.

Tenendo sempre presenti due aspetti. Shakespeare è grande autore comico quanto tragico: oltre ad Amleto ci sono Falstaff, le commedie dell’amore romantico (spesso ambientate in Italia), delle beffe di corte e di campagna, delle traversie in cui incorrono le giovani travestite da maschietti (con tutte le ambivalenze e gli equivoci sessuali del caso).

È proteiforme, di una «infinita varietà» come Cleopatra: cupo, tragico e oscuro, ilare, romantico e sognante. Si presta a tutto e tutto sopporta; si può fare quel che si vuole con i suoi drammi, ogni forma di prevaricazione - e molte ne sono state fatte - e lui resiste, rimbalza in piedi, ci sorride e ci atterrisce.

Se poi più che drammi rifiniti, scrive copioni «instabili» fatti per la recitazione, lo fa con indomita sicurezza e maestria verbale. In un passo del Sogno d’una notte di mezza estate, Téseo sentenzia che il pazzoide, l’amante e il poeta sono impastati di immaginazione, e che il poeta, pur nella frenesia che li accomuna, «dà all’aereo nulla una stabile dimora e un nome»: cioè concretezza, visibilità, conforto formale. Così fa Shakespeare, già anticipatore e maestro del nostro meta-teatro, del dramma entro il dramma, a specchio del suo stesso gioco. Dura da quattrocento anni, e a leggerlo sembra che abbia scritto ieri.


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