Amleto, primo intellettuale della modernità inquieta
Si trova in Verdi, ispira Freud, è un «arrabbiato» del ’900
di Sergio Perosa (Corriere, 06.05.2012)
Shakespeare è innanzitutto uomo di teatro, autore di copioni adattabili ad ogni circostanza o evenienza, per l’albagia di corte come per l’universo carcerario. Tutto il Mondo è un Teatro, e il teatro è per lui specchio e metafora del mondo. Scrive in splendidi versi anche nei momenti più truci, ma la poesia viene come per crescita spontanea, compenetrata al gesto teatrale.
Già nell’in-folio postumo che nel 1623 raccoglieva i suoi trentasei drammi, l’amico-rivale Ben Jonson aveva scritto che non era solo «di un’epoca, ma per tutti i tempi». Mai previsione fu più azzeccata. Per quattrocento anni Shakespeare è stato intimo e centrale alla nostra cultura.
I romantici ne fanno il loro padre per la scoperta della soggettività, del sogno e della fiaba, delle passioni estreme. In Germania e Francia, Amleto è visto come il primo intellettuale moderno, insoddisfatto e inquieto. Nell’800 Shakespeare diventa una Bibbia ed è rintracciabile nelle grandi creazioni epiche, in Wagner, Verdi, Melville (Moby Dick non sarebbe com’è senza la sua radicata presenza).
Freud scopre in lui presupposti ed esempi per la sua psicoanalisi: Amleto come Edipo, vittima di fissazioni, turbe e complessi; e come tale viene da allora rappresentato. Joyce lo vede coinvolto nel dramma del rapporto fra padri e figli e della reciproca perdita; nel secondo dopoguerra, per continuare con lui, Amleto sarà uno degli Angry Young Men, dei «giovani arrabbiati».
Dal ’900 a oggi Shakespeare, secondo il titolo del libro di Ian Kott, è nostro contemporaneo; non c’è forma di dramma in cui non si ritrovi la sua presenza ed ispirazione - compreso, per paradosso, quello della incomunicabilità o del corpo. Una tragedia di sangue e vendetta come Tito Andronico, lo stesso Macbeth e Re Lear, sono già teatro della crudeltà.
Le sue grandi campiture di temi storico-politici - che istruirono Brecht, senza emozionarlo - affascinano il nostro tempo: i drammi di storia inglese, Riccardo III, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Macbeth, lo stesso Amleto, Re Lear, hanno al centro l’attrazione, la conquista, la perdita, le angosce e le disillusioni del potere, con una carica di emozione poetica e teatrale che altrove non si ritrova (in un malandato teatro di Brooklyn ho visto un Macbeth in giapponese dove la foresta di Birnam era un fremito di verdi bambù: teneva benissimo la scena e si capiva anche senza comprendere le parole). In questi drammi, e segnatamente in Misura per misura, il Potere è quasi sempre collegato al sesso, che serpeggia fra i protagonisti come impulso motore e insieme disgregatore: una consapevolezza e connessione che è della nostra realtà e del nostro teatro.
Sesso, amore e morte sono le grandi componenti di Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra: nell’uno l’irresistibile passione giovanile, quella matura eppure esaltante oltre ogni perdita terrena nell’altro. Quest’ultimo dramma è già campito sul grande contrasto fra Oriente e Occidente, e nei vari casi le contrapposizioni drammatiche sono adattabili a circostanze storiche e sociali diverse, di altri luoghi e tempi: ebrei e palestinesi, samurai e contadini.
È successo in tutta una serie di produzioni teatrali e di film. Shakespeare affronta poi l’inquietante presenza fra noi del diverso, dello straniero, dell’«altro»: l’ebreo conculcato eppure rivendicato nel Mercante di Venezia, il Moro svilito e tradito, regredito da acculturato di rango alla condizione di «barbaro» in Otello, la donna umiliata e offesa eppure fino all’ultimo ribelle, forse nascostamente, nella Bisbetica domata. Sono drammi in cui si prefigurano i modi di repressione tipici dei regimi totalitari del ’900, ed hanno permesso continue forme di attualizzazione.
Completa il quadro, nella Tempesta, la precoce percezione del colonialismo e dell’abnorme rapporto che si instaura fra colonizzatore e schiavo: Prospero che riconosce Calibano come parte oscura di sé. Se ne sono avute diverse riscritture dall’altra parte (Aimé Césaire in testa, Une tempête) nei Paesi post-coloniali, in Africa, India, Estremo Oriente. Sembrano fruibili in ogni parte del mondo.
Questi temi riecheggiano nella sensibilità e nel teatro dell’ultimo mezzo secolo, dove pure riverbera il nichilismo assoluto, quasi insopportabile, di Re Lear. Lo stesso tema della follia, che Shakespeare inscena ed esplora nelle sue varie forme - reale, indotta, simulata, per disperazione o per finta, di buffoni o poveri derelitti allo stremo - apre le porte al teatro dell’assurdo.
Tenendo sempre presenti due aspetti. Shakespeare è grande autore comico quanto tragico: oltre ad Amleto ci sono Falstaff, le commedie dell’amore romantico (spesso ambientate in Italia), delle beffe di corte e di campagna, delle traversie in cui incorrono le giovani travestite da maschietti (con tutte le ambivalenze e gli equivoci sessuali del caso).
È proteiforme, di una «infinita varietà» come Cleopatra: cupo, tragico e oscuro, ilare, romantico e sognante. Si presta a tutto e tutto sopporta; si può fare quel che si vuole con i suoi drammi, ogni forma di prevaricazione - e molte ne sono state fatte - e lui resiste, rimbalza in piedi, ci sorride e ci atterrisce.
Se poi più che drammi rifiniti, scrive copioni «instabili» fatti per la recitazione, lo fa con indomita sicurezza e maestria verbale. In un passo del Sogno d’una notte di mezza estate, Téseo sentenzia che il pazzoide, l’amante e il poeta sono impastati di immaginazione, e che il poeta, pur nella frenesia che li accomuna, «dà all’aereo nulla una stabile dimora e un nome»: cioè concretezza, visibilità, conforto formale. Così fa Shakespeare, già anticipatore e maestro del nostro meta-teatro, del dramma entro il dramma, a specchio del suo stesso gioco. Dura da quattrocento anni, e a leggerlo sembra che abbia scritto ieri.