Lotte di potere e profitto: così Shakespeare anticipò Marx
di Sergio Perosa (Corriere della Sera, 09.07.2012)
Nell’ampio volume Shakespeare filosofo dell’essere (Mimesis), che presenta da una prospettiva singolare tutti i drammi di Shakespeare, Franco Ricordi, studioso, uomo di teatro e regista, ne fa un grande filosofo: non sistematico, ma nella concretezza teatrale.
La filosofia, intesa come domanda sull’essere e sul non essere, è vissuta nella drammaturgia; parla il linguaggio del teatro, che è specchio e metafora del mondo. Al tempo stesso, o per questo, Shakespeare è epicentro e ispiratore della cultura occidentale; ha rapporti con tutti e tutti strega: illuministi e romantici, Wagner e Verdi, Marx (che vi trova espressa la legge del tornaconto e del profitto) e Freud (che vi trova le basi stesse della psicanalisi).
L’articolazione data ai drammi di Shakespeare, pur suggerendo il senso dei rapporti cronologici fra loro, è geografica, a seconda dei Paesi in cui sono ambientati o a cui sono riferiti. In quelli in rapporto con la Grecia (Troilo e Criseide fra tutti), il drammaturgo rintraccia i fondamenti del teatro là dove nasce la filosofia, l’efferatezza e l’inganno, il senso di ansia, il metateatro e quello che Ricordi chiama il «nichilismo spettacolare» che sarà tipico dei nostri tempi.
In quelli romani, il senso della Storia è motore del discorso politico-religioso, sul potere e sul delitto, ma il suo meccanismo è antifilosofico, succube piuttosto del Destino e delle casualità. Segna il crollo degli ideali e la constatazione pessimistica del proprio fallimento: non si può migliorare il mondo, solo tentare di salvarlo. L’Italia e il Mediterraneo di molti altri drammi sono la culla dell’amore romantico e tragico (Romeo e Giulietta per tutti); vi si mescolano fantasia e realtà, fiaba e conflitti, crisi di identità e angoscia. In quelli di storia britannica (compreso Macbeth) predominano la Storia come azione e distruzione ed il rovesciamento dei valori: significativamente, la sessualità pervade la lotta per il potere e i testi stessi. Il momento massimo e cruciale è in quelli - come Amleto e Misura per misura - legati a una sorta di Mitteleuropa, che preludono alla crisi della filosofia fra ’800 e ’900 e alla «calamità attraente» dell’attuale cultura occidentale.
Da ultimo, drammi come Re Lear e i «romances», Cymbeline e La tempesta, slegati da strette rispondenze geografiche (benché l’ultimo mostri una premonizione dell’America), sono visti come esempi di un Teatro Universale in cui la «filosofia del naufragio» è percorsa da un modernissimo senso di inquietudine e incombente catastrofe, di crisi di identità - quel «io non sono quel che sono» che distingue e ispira i momenti più alti della drammaturgia di Shakespeare. Lì «il Tempo è drammaturgo del mondo» e trionfa il suddetto nichilismo spettacolare. Lì il teatro diventa esibizione di sé, autoriflessivo, ma anche teatro del corpo e dell’assurdo, del perdono e della redenzione.
Ricco di motivi, riflessioni e spunti, appassionato e traboccante di gusto teatrale, il libro ha belle e pungenti analisi dei singoli drammi, prolungate letture da regista-attore. In forma sincretica, ne tracciano un’ampia e convincente campitura. Ci lasciano con uno Shakespeare campione del teatro-mondo e della speculazione filosofica calata ed esaltata sulle scene.