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Nuova America. Lavori in corso...

44° PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA. BARACK OBAMA PREPARA IL DISCORSO D’INSEDIAMENTO. A WASHINGTON, OGGI, GIORNO 20, ALLE ORE 12, IL GIURAMENTO E IL DISCORSO.

martedì 20 gennaio 2009 di Federico La Sala
[...] alle 12, gli Stati Uniti hanno il loro 44° presidente quando il vincitore dell’Election Day giura con il nome di Barack Hussein Obama II - in omaggio all’omonimo padre - ponendo la mano destra sulla Bibbia adoperata da Abramo Lincoln il 4 marzo 1861, 1280 pagine rilegate in velluto e oro, pronunciando la formula prevista dalla Costituzione: «Giuro che eseguirò fedelmente la carica di presidente degli Stati Uniti, lo farò al meglio della mia abilità per preservare, proteggere e (...)

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> PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA. OBAMA PREPARA IL DISCORSO D’INSEDIAMENTO ---- «A New Birth of Freedom», una nuova alba della libertà... Lincoln, il presidente lodato da Marx, offre un canovaccio agli Stati Uniti di Obama? (di Paolo Valentino)

sabato 17 gennaio 2009

Nel bicentenario torna il mito dello statista che liberò gli schiavi e salvò l’Unione Lincoln, il presidente lodato da Marx

Criticato negli anni ’60, oggi è un modello per la «rinascita»

di Paolo Valentino (Corriere della Sera, 17.01.2009)

WASHINGTON - Per giurare da presidente, Barack Obama ha scelto la Bibbia che apparteneva a lui, vecchia di un secolo e mezzo, copertina di velluto e legatura in oro, normalmente custodita alla Biblioteca del Congresso. Il tema dell’inaugurazione del 44mo presidente è preso direttamente dal celebre discorso di Gettysburg: «A New Birth of Freedom», una nuova alba della libertà. Nei discorsi, nelle scelte dei ministri, nei luoghi, nell’intera iconografia della sua campagna, è sempre lui il riferimento ideale di Obama. Alla National Portrait Gallery espongono le sue maschere scultoree e le fotografie più famose. All’American History Museum è stata appena aperta una mostra sulla sua vita «straordinaria»: c’è anche il cilindro che indossava la notte in cui venne assassinato. L’omicidio avvenne al Ford’s Theatre, anche questo già restaurato e fra poco riaperto. E per gli appassionati della mondanità, l’American Art Museum dedica una sala al suo ballo inaugurale, dove si possono vedere anche inviti e menu originali. Mentre una raffica di nuovi saggi e biografie, fra cui quella monumentale di Michael Burlingame, che ha scoperto lettere inedite e articoli considerati perduti, scandisce l’inizio dell’anno del suo bicentenario.

Ma non è soltanto una celebrazione. L’America è di nuovo innamorata di Abraham Lincoln (1809-1865), il sedicesimo presidente, l’uomo dell’Illinois che emancipò gli schiavi, il redentore degli ideali americani che salvò l’Unione e cambiò la storia del mondo. «No Lincoln, no nation», ricorda con la solita verve Christopher Hitchens. È una riconsiderazione collettiva, che la drammatica situazione del Paese, di fronte alla prospettiva di una nuova Grande depressione, rende ancora più appassionata e urgente. È a Lincoln in altre parole che gli americani, primo fra tutti il nuovo presidente, sembrano nuovamente guardare per ritrovare ispirazione e visione.

Non sempre è stato così. Come mostra Harold Holzer nella sua Lincoln Anthology: 85 Writers on his Life and Legacy from 1860 until Now, il giudizio su Lincoln è stato sempre molto variegato e controverso. Negli anni Sessanta, per esempio, il «grande emancipatore» era stato ridimensionato sia da destra che da sinistra. La cultura liberal gli contestava che il suo vero obiettivo fosse stato preservare l’Unione, non già abolire la schiavitù: in una lettera del 1862, Lincoln non ne faceva mistero, spiegando che avrebbe tenuto insieme l’Unione anche «senza liberare un solo schiavo», ovvero «liberandoli tutti», o ancora «liberandone solo alcuni ». E quelli liberati li avrebbe volentieri incoraggiati a emigrare in Africa.

A destra, a parte l’eterno risentimento sudista che fino al 1964 penalizzò il Partito repubblicano, il suo partito, negli ex Stati della Confederazione, un editoriale sulla National Review di William Buckley lo descriveva come «essenzialmente negativo per il genio e la libertà del nostro Paese», considerandolo un centralista, nemico dei diritti degli Stati. Su questo giudizio forse pesava anche la lettera di congratulazioni che Karl Marx gli scrisse nel 1864, in occasione della sua rielezione, dove fra l’altro il padre del comunismo affermava ( sic) che «i lavoratori d’Europa sentono istintivamente che la bandiera a stelle e strisce porta il destino della loro classe».

Ma il bicentenario, l’ascesa alla presidenza di un altro uomo dell’Illinois, l’arrivo alla Casa Bianca del primo afroamericano, che porta al suo logico esito l’emancipazione iniziata nel 1862, lo spettro della depressione sono gli ingredienti che hanno contribuito alla riscoperta di Lincoln. Perché fu lui, nel momento in cui fallì il compromesso originario, che aveva ipocritamente conciliato la schiavitù con la più democratica Costituzione del mondo, a salvaguardare il più grande esperimento di autogoverno della storia, sia pure al prezzo di una sanguinosa Guerra civile.

Offre un canovaccio, il sedicesimo presidente, agli Stati Uniti di Obama? C’è stato molto dibattito, nelle settimane scorse, intorno al libro di Doris Kearns Goodwin, Team of Rivals: the Political Genius of Abraham Lincoln, pubblicato nel 2005, che racconta come nel suo primo gabinetto il «grande emancipatore» volle tutti gli ex avversari politici. Il neopresidente lo ha indicato come una delle sue letture preferite, fonte di ispirazione per la composizione del suo governo: la scelta di Hillary Clinton per il dipartimento di Stato e la conferma del repubblicano Gates al Pentagono rispondono a questa logica. «Ma quello era un costume del tempo. Il punto non sono gli avversari, quanto le personalità forti », osserva lo storico Eric Foner, della Columbia University, autore dell’antologia Our Lincoln: New Perspectives on Lincoln and His World. Secondo Foner, «il confronto con presidenti recenti ci dice che spesso essi hanno scelto come ministri degli yesman dei loro Stati, quindi non hanno mai dovuto misurarsi con punti di vista diversi e opposti». In questo senso, per Foner, Lincoln offre ancora un modello: «La squadra dei rivali può funzionare. Ma il compito è più difficile. La Guerra civile contribuì all’impressione di un governo di unità nazionale. Non so se la crisi economica farà altrettanto».

Secondo Andrew Delbanco, uno degli autori dell’antologia di Foner, nonostante i suoi traumi la Guerra civile, a differenza di altre guerre, non lasciò l’America in crisi e priva di una causa o di una visione. Lincoln cioè seppe trovare «un significato trascendente al massacro», in grado di parlare sia ai vincitori che agli sconfitti. Fu il miracolo di Gettysburg, dove in meno di due minuti Lincoln diventò un nuovo padre fondatore, definendo una nuova visione e una nuova missione.

Oggi le sfide sono diverse, ma non meno gravi. Eppure, secondo Harold Holzer, che in Lincoln President-Elect racconta la transizione presidenziale dell’inverno 1860-61, «come allora, la leadership può venire non tanto dall’esperienza, ma dalla serietà, dal senso del dovere, dall’umiltà e dalla comprensione degli altri».

Alla National Portrait Gallery, la celebre foto scattata da Alexander Gardner nel febbraio 1865, due mesi prima della morte di Lincoln, sembra anticiparne la fine. Proprio sopra la fronte, nel punto in cui la pallottola di John Wilkes Booth andò a conficcarsi, una crepa attraversa la lastra. Nella stampa, il negativo si era rotto. Ma per una volta, lo sguardo del vecchio Abe sembra addolcirsi in un mezzo sorriso. Forse è della promessa di quell’ottimismo, che hanno bisogno oggi l’America e il mondo.


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