Arrivato a terza bozza
Obama, tour de force per il discorso d’insediamento
Un lungo week end e lunghe nottate per mettere a punto le parole che apriranno la sua stagione alla Casa Bianca. Tra i modelli anche Abraham Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù. Lo speech-writer di Kennedy: ’’Barack è il migliore oratore dali tempi di JFK’’
Washington, 16 gen. - (Adnkronos) - Arrivato a tre bozze già stracciate Barack Obama, (nella foto) si prepara ad un lungo week-end, e lunghe nottate nella suite presidenziale dell’Hay-Adams hotel, di lavoro per mettere a punto la versione definitiva del suo discorso di insediamento.
Un’ispirazione il presidente eletto potrà sicuramente averla da Abraham Lincoln, che ha preso come modello sin dall’inizio della sua campagna elettorale a Springfield, città natale del presidente che abolì la schiavitù. E dal discorso, di appena 703 parole, che Lincoln pronunciò per la fine della guerra civile proprio nel Lincoln Memorial dove sabato sera inizieranno i festeggiamenti per l’inagurazione di Obama con un mega concerto. "Il genio di Lincoln non potrà mai essere eguagliato" ha comunque affermato recentemente il presidente eletto, sottolineando che "ogni volta che leggi per discorso uno si intimidisce, soprattutto perché è veramente corto".
"L’obiettivo principale di un discorso di insediamento e’ catturare al meglio il momento in cui viviamo" ha detto ancora Obama, che ha iniziato a preprare il discorso piu’ importante della sua vita pochi giorni dopo la vittoria del 4 novembre, con l’aiuto del suo principale consigliere David Axerlod e il capo degli speechwriter, Jon Favreau: il trio ha inziato a mettere giu’ i temi già una settimana prima del Ringraziamento.
Favreau, che lavora con Obama sin dal 2005, per l’inizio di dicembre aveva già una prima bozza, lavorando con il suo team un po’ ovunque, non solo negli uffici della transition team ma anche allo Starbucks. Ma e’ stata con una conference call tra Obama, Alxelrod e Favreau un giorno prima della fine delle due settimane di vacanza alle Hawaii che il lavoro di stesura e’ entrato nel vivo.
Al suo ritorno, ai primi di gennaio, Obama aveva sulla scrivania gia’ una seconda bozza. E dopo un week end passato da solo a correggere e riscrivere il testo, ha consegnato il lunedì ai suoi collaboratori una terza versione. Il discorso di Obama è comunque quasi finito, hanno rivelato fonti del suo staff al sito Politico che ricorda come Obama abbia affrontato questo discorso con il suo solito metodo, "collaborando nella stesura ma esercitando sempre l’ultima parola sul testo". Per natura competitivo, Obama infatti si rende conto che martedì si troverà già con il suo primo passo della sua presidenza ad affrontare il giudizio della storia, ed il confronto con i suoi predecessori.
"Obama è il miglior oratore arrivato alla presidenza dai tempi di JFK, e quindi ascolteremo il migliore discorso sin dai tempi del presidente Kennedy" ha affermato Theodore Sorensen, lo speechwriter che aiutò Kennedy a scrivere il discorso dell’insediamento nel 1961, che per mezzo secolo è stata ’la bibbia’ fonte di ispirazione per tutti i nuovi presidenti.
La posta in gioco comunque è alta, considerata soprattutto la particolare situazione - due guerra in corso ed una gravissima crisi economica - in cui Obama si insedia, ed anche la stessa fama di grande oratore. "Obama è quello che è grazie ai suoi discorsi: è un oratore che fa il politico, non un politico che sa pronunciare discorsi. Ed il vero problema per è superare se stesso" spiega Wayne Fields, professore di inglese dalla Washington university che ha scritto un saggio sull’oratoria dei presidenti americani.
Mentre l’ex speechwriter di Bill Clinton e’ sicuro del fatto che Obama mettera’ il massimo di cura ed attenzione alla preparazione del discorso, dando una curiosa chiave di lettura del modo di lavorare dell’ex presidente democratico e del prossimo: "da tutto quello che ho sentito del presidente Obama, credo che sia migliore del presidente Clinton e del suo staff: noi eravamo quelli che preparavano la tesina la notte prima della consegna, mentre si ha l’impressione che il senatore ed i suoi siano quelli che la preparano con una settimana o due di anticipo".
LA NUOVA ERA NEL DISCORSO DI OBAMA - AUDIO (La Stampa)
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
NUOVA AMERICA - L’INSEDIAMENTO A WASHINGTON
Ore 12, Obama giura
Il grande giorno del giuramento al Campidoglio di Obama
La mano destra sulla Bibbia di Lincoln, due milioni ad applaudirlo
DI MAURIZIO MOLINARI INVIATO A WASHINGTON (La Stampa, 20/1/2009)
La cerimonia per l’insediamento del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti inizia alle 11.30 in punto sui gradini di Capitol Hill con le note della banda del corpo dei Marines e del coro «Boys and Girls» di San Francisco, di fronte ad un Mall riempito da un folla prevista di oltre due milioni di anime ad una temperatura sotto lo zero. Il benvenuto spetta a Dianne Feinstein, la senatrice della California presidente dell’Inaugurazione che in giugno ospitò a casa sua l’incontro di riappacificazione fra Obama e Hillary Clinton al termine delle primarie.
Subito dopo c’è l’«invocazione a Dio» di Rick Warren, il pastore conservatore della chiesa di Saddleback considerato dai gay un nemico giurato, seguito dalla voce di Aretha Franklin, che già cantò per Bill Clinton. Il primo a giurare è il vicepresidente Joeseph Biden jr, nelle mani di John Paul Steven, il più liberal e anziano giudice della Corte Suprema che, superati gli 88 anni, è il più probabile candidato a lasciare il posto ad un successore designato da Obama.
Nell’ultimo interludio musicale i protagonisti sono il compositore John Williams, autore fra l’altro della colonna sonora di «Guerre Spaziali» assieme ai musicisti Itzhak Perlman, Yo-Yo Ma (che esibisce un violoncello anti-congelamento), Gabriela Montero e Anthony McGill.
Conclusa l’ultima nota, alle 12, gli Stati Uniti hanno il loro 44° presidente quando il vincitore dell’Election Day giura con il nome di Barack Hussein Obama II - in omaggio all’omonimo padre - ponendo la mano destra sulla Bibbia adoperata da Abramo Lincoln il 4 marzo 1861, 1280 pagine rilegate in velluto e oro, pronunciando la formula prevista dalla Costituzione: «Giuro che eseguirò fedelmente la carica di presidente degli Stati Uniti, lo farò al meglio della mia abilità per preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti».
A raccogliere il giuramento di Obama, affiancato dalla moglie Michelle e dalle figlie Malia e Sasha, è il presidente della Corte Suprema John Roberts, nominato da George W. Bush, conservatore di razza e ritenuto il prossimo avversario di Obama su questioni roventi come matrimonio gay, pena di morte e ricerca sulle cellule staminali. Il discorso di Obama sull’inizio di «un’era di responsabilità» è seguito dalla lettura di un poema della newyorkese Elizabeth Alexander, lasciando al reverendo Joseph Lowery la benedizione finale prima dell’inno suonato dai «Sea Changers», la banda della Us Navy.
Al termine della cerimonia, Obama accompagna l’ex presidente Bush e la moglie Laura all’elicottero «Marine One» diretto alla base di Andrews, recandosi poi nella Statuary Hall del Campidoglio per il pranzo in onore di 200 vip selezionati di Washington a base di pietanze lincolniane - ostriche, fagiano e dolce di mele - seguito, alle 14.30, dall’inizio della parata. Si muove dal Capitol, percorre Constitution Avenue e quindi Pennsylvania Avenue accompagnando il presidente fino al 1600, l’entrata della Casa Bianca.
La composizione della parata racconta l’identità di Obama. Oltre ai corpi scelti di tutte le armi e al reggimento «pifferi e tamburi» delle Giubbe Rosse, ci sono 90 gruppi che marciano, incluso il carro allegorico delle Hawaii con un vulcano di cartapesta, la banda del liceo di Punahou di Honolulu dove Barack ha studiato, la scuola «Young Magnet» di Chicago dove è cresciuta Michelle e gli ultimi aviatori Tuskegee ancora in vita, che durante la Seconda Guerra Mondiale servirono in un’unità simbolo della segregazione. Alle 18 la parata si conclude e Washington diventa palcoscenico dei dieci «Inaugural Balls» a cui gli Obama partecipano, a cominciare dal «Neighborhood Ball» voluto da Barack per incontrare «cittadini giunti da ovunque».
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Il testo (in inglese) del discorso di Barack Obama, 44° presidente Usa
Pronunciato oggi pomeriggio a Capitol Hill, Washington
"All this we can do, all this we will do"
Il testo originale del discorso di Obama
Ecco il testo, in inglese, del discorso d’insediamento di Barack Obama, quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America.
"My fellow citizens:
I stand here today humbled by the task before us, grateful for the trust you have bestowed, mindful of the sacrifices borne by our ancestors. I thank President Bush for his service to our nation, as well as the generosity and cooperation he has shown throughout this transition.
Forty-four Americans have now taken the presidential oath. The words have been spoken during rising tides of prosperity and the still waters of peace. Yet, every so often the oath is taken amidst gathering clouds and raging storms. At these moments, America has carried on not simply because of the skill or vision of those in high office, but because We the People have remained faithful to the ideals of our forbearers, and true to our founding documents.
So it has been. So it must be with this generation of Americans.
That we are in the midst of crisis is now well understood. Our nation is at war, against a far-reaching network of violence and hatred. Our economy is badly weakened, a consequence of greed and irresponsibility on the part of some, but also our collective failure to make hard choices and prepare the nation for a new age. Homes have been lost; jobs shed; businesses shuttered. Our health care is too costly; our schools fail too many; and each day brings further evidence that the ways we use energy strengthen our adversaries and threaten our planet.
These are the indicators of crisis, subject to data and statistics. Less measurable but no less profound is a sapping of confidence across our land - a nagging fear that America’s decline is inevitable, and that the next generation must lower its sights.
Today I say to you that the challenges we face are real. They are serious and they are many. They will not be met easily or in a short span of time. But know this, America - they will be met.
On this day, we gather because we have chosen hope over fear, unity of purpose over conflict and discord.
On this day, we come to proclaim an end to the petty grievances and false promises, the recriminations and worn out dogmas, that for far too long have strangled our politics.
We remain a young nation, but in the words of Scripture, the time has come to set aside childish things. The time has come to reaffirm our enduring spirit; to choose our better history; to carry forward that precious gift, that noble idea, passed on from generation to generation: the God-given promise that all are equal, all are free, and all deserve a chance to pursue their full measure of happiness.
In reaffirming the greatness of our nation, we understand that greatness is never a given. It must be earned. Our journey has never been one of short-cuts or settling for less. It has not been the path for the faint-hearted - for those who prefer leisure over work, or seek only the pleasures of riches and fame. Rather, it has been the risk-takers, the doers, the makers of things - some celebrated but more often men and women obscure in their labor, who have carried us up the long, rugged path towards prosperity and freedom.
For us, they packed up their few worldly possessions and traveled across oceans in search of a new life.
For us, they toiled in sweatshops and settled the West; endured the lash of the whip and plowed the hard earth.
For us, they fought and died, in places like Concord and Gettysburg; Normandy and Khe Sanh.
Time and again these men and women struggled and sacrificed and worked till their hands were raw so that we might live a better life. They saw America as bigger than the sum of our individual ambitions; greater than all the differences of birth or wealth or faction.
This is the journey we continue today. We remain the most prosperous, powerful nation on Earth. Our workers are no less productive than when this crisis began. Our minds are no less inventive, our goods and services no less needed than they were last week or last month or last year. Our capacity remains undiminished. But our time of standing pat, of protecting narrow interests and putting off unpleasant decisions - that time has surely passed. Starting today, we must pick ourselves up, dust ourselves off, and begin again the work of remaking America.
For everywhere we look, there is work to be done. The state of the economy calls for action, bold and swift, and we will act - not only to create new jobs, but to lay a new foundation for growth. We will build the roads and bridges, the electric grids and digital lines that feed our commerce and bind us together. We will restore science to its rightful place, and wield technology’s wonders to raise health care’s quality and lower its cost. We will harness the sun and the winds and the soil to fuel our cars and run our factories. And we will transform our schools and colleges and universities to meet the demands of a new age. All this we can do. And all this we will do.
Now, there are some who question the scale of our ambitions - who suggest that our system cannot tolerate too many big plans. Their memories are short. For they have forgotten what this country has already done; what free men and women can achieve when imagination is joined to common purpose, and necessity to courage.
What the cynics fail to understand is that the ground has shifted beneath them - that the stale political arguments that have consumed us for so long no longer apply. The question we ask today is not whether our government is too big or too small, but whether it works - whether it helps families find jobs at a decent wage, care they can afford, a retirement that is dignified. Where the answer is yes, we intend to move forward. Where the answer is no, programs will end. And those of us who manage the public’s dollars will be held to account - to spend wisely, reform bad habits, and do our business in the light of day - because only then can we restore the vital trust between a people and their government.
Nor is the question before us whether the market is a force for good or ill. Its power to generate wealth and expand freedom is unmatched, but this crisis has reminded us that without a watchful eye, the market can spin out of control - and that a nation cannot prosper long when it favors only the prosperous. The success of our economy has always depended not just on the size of our Gross Domestic Product, but on the reach of our prosperity; on our ability to extend opportunity to every willing heart - not out of charity, but because it is the surest route to our common good.
As for our common defense, we reject as false the choice between our safety and our ideals. Our Founding Fathers, faced with perils we can scarcely imagine, drafted a charter to assure the rule of law and the rights of man, a charter expanded by the blood of generations. Those ideals still light the world, and we will not give them up for expedience’s sake. And so to all other peoples and governments who are watching today, from the grandest capitals to the small village where my father was born: know that America is a friend of each nation and every man, woman, and child who seeks a future of peace and dignity, and that we are ready to lead once more.
Recall that earlier generations faced down fascism and communism not just with missiles and tanks, but with sturdy alliances and enduring convictions. They understood that our power alone cannot protect us, nor does it entitle us to do as we please. Instead, they knew that our power grows through its prudent use; our security emanates from the justness of our cause, the force of our example, the tempering qualities of humility and restraint.
We are the keepers of this legacy. Guided by these principles once more, we can meet those new threats that demand even greater effort - even greater cooperation and understanding between nations. We will begin to responsibly leave Iraq to its people, and forge a hard-earned peace in Afghanistan. With old friends and former foes, we will work tirelessly to lessen the nuclear threat, and roll back the specter of a warming planet. We will not apologize for our way of life, nor will we waver in its defense, and for those who seek to advance their aims by inducing terror and slaughtering innocents, we say to you now that our spirit is stronger and cannot be broken; you cannot outlast us, and we will defeat you.
For we know that our patchwork heritage is a strength, not a weakness. We are a nation of Christians and Muslims, Jews and Hindus - and non-believers. We are shaped by every language and culture, drawn from every end of this Earth; and because we have tasted the bitter swill of civil war and segregation, and emerged from that dark chapter stronger and more united, we cannot help but believe that the old hatreds shall someday pass; that the lines of tribe shall soon dissolve; that as the world grows smaller, our common humanity shall reveal itself; and that America must play its role in ushering in a new era of peace.
To the Muslim world, we seek a new way forward, based on mutual interest and mutual respect. To those leaders around the globe who seek to sow conflict, or blame their society’s ills on the West - know that your people will judge you on what you can build, not what you destroy. To those who cling to power through corruption and deceit and the silencing of dissent, know that you are on the wrong side of history; but that we will extend a hand if you are willing to unclench your fist.
To the people of poor nations, we pledge to work alongside you to make your farms flourish and let clean waters flow; to nourish starved bodies and feed hungry minds. And to those nations like ours that enjoy relative plenty, we say we can no longer afford indifference to suffering outside our borders; nor can we consume the world’s resources without regard to effect. For the world has changed, and we must change with it.
As we consider the road that unfolds before us, we remember with humble gratitude those brave Americans who, at this very hour, patrol far-off deserts and distant mountains. They have something to tell us today, just as the fallen heroes who lie in Arlington whisper through the ages. We honor them not only because they are guardians of our liberty, but because they embody the spirit of service; a willingness to find meaning in something greater than themselves. And yet, at this moment - a moment that will define a generation - it is precisely this spirit that must inhabit us all.
For as much as government can do and must do, it is ultimately the faith and determination of the American people upon which this nation relies. It is the kindness to take in a stranger when the levees break, the selflessness of workers who would rather cut their hours than see a friend lose their job which sees us through our darkest hours. It is the firefighter’s courage to storm a stairway filled with smoke, but also a parent’s willingness to nurture a child, that finally decides our fate.
Our challenges may be new. The instruments with which we meet them may be new. But those values upon which our success depends - hard work and honesty, courage and fair play, tolerance and curiosity, loyalty and patriotism - these things are old. These things are true. They have been the quiet force of progress throughout our history. What is demanded then is a return to these truths. What is required of us now is a new era of responsibility - a recognition, on the part of every American, that we have duties to ourselves, our nation, and the world, duties that we do not grudgingly accept but rather seize gladly, firm in the knowledge that there is nothing so satisfying to the spirit, so defining of our character, than giving our all to a difficult task.
This is the price and the promise of citizenship.
This is the source of our confidence - the knowledge that God calls on us to shape an uncertain destiny.
This is the meaning of our liberty and our creed - why men and women and children of every race and every faith can join in celebration across this magnificent mall, and why a man whose father less than sixty years ago might not have been served at a local restaurant can now stand before you to take a most sacred oath.
So let us mark this day with remembrance, of who we are and how far we have traveled. In the year of America’s birth, in the coldest of months, a small band of patriots huddled by dying campfires on the shores of an icy river. The capital was abandoned. The enemy was advancing. The snow was stained with blood. At a moment when the outcome of our revolution was most in doubt, the father of our nation ordered these words be read to the people:
"Let it be told to the future world... that in the depth of winter, when nothing but hope and virtue could survive... that the city and the country, alarmed at one common danger, came forth to meet [it]."
America. In the face of our common dangers, in this winter of our hardship, let us remember these timeless words. With hope and virtue, let us brave once more the icy currents, and endure what storms may come. Let it be said by our children’s children that when we were tested we refused to let this journey end, that we did not turn back nor did we falter; and with eyes fixed on the horizon and God’s grace upon us, we carried forth that great gift of freedom and delivered it safely to future generations.
* la Repubblica, 20 gennaio 2009
Domani il discorso di addio del presidente uscente in vista dell’insediamento del presidente eletto
L’addio di Obama
di Raffaella Baritono (Il Mulino, 09 gennaio 2017)
I riti in democrazia sono importanti e hanno la capacità di cementare una comunità. Al di là dei conflitti che la lacerano, testimoniano la continuità nella diversità delle scelte politiche, certificano la saldezza delle istituzioni sulla volatilità dei comportamenti e degli umori popolari.
Se ne erano accorti anche i padri fondatori della nuova repubblica americana quando, all’interno di una lotta politica che vedeva all’opera tutta la gamma possibile della retorica populista, ritenevano il passaggio di potere da un presidente all’altro come il momento della sospensione del conflitto e della ricerca dell’unità del paese.
Certo alla fine del Settecento anche nei primi decenni dell’Ottocento, tutto era relativamente più semplice: in fondo i candidati appartenevano alla stessa élite economico-sociale, condividevano la stessa cultura politica di fondo pur facendo riferimento a un elettorato già composito dal punto di vista economico, religioso ed etnico. Non a caso, il primo vero e proprio terremoto politico si ebbe con l’elezione dell’«uomo del popolo», piuttosto rozzo e volgare (o quantomeno così dipinto all’epoca), per quanto eroe di guerra, Andrew Jackson, il quale aprì la Casa Bianca al popolino che si gettò sulle bevande e sul cibo, travolgendo tutto sotto lo sguardo attonito dei rappresentanti delle élite che osservavano la nuova calata dei barbari.
Gli ultimi atti della presidenza di Barack Obama per certi versi sembrano voler segnare la distanza siderale fra la sua amministrazione e i nuovi barbari che si apprestano a entrare alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo. D’altronde, è una presidenza, quella Obama, che si conclude senza che siano emersi scandali o casi controversi che abbiano messo in discussione la caratura morale del presidente. La classe non è acqua, sembrano voler dire gli Obama a un popolo americano che ha eletto Trump a novembre, ma che allo stesso tempo continua a dare un giudizio estremamente positivo del presidente uscente e della sua first lady. Lo ha espresso Michelle Obama nel suo ultimo discorso, ribadendo che la forza dell’America, nonostante la rabbia di chi ancora non si rassegna all’evidenza, è la sua diversità di religioni, colori e valori. Una riaffermazione di tipo patriottico rivolta soprattutto a quei giovani che pure avevano tradito gli Obama e il partito democratico l’8 novembre, spronandoli a prendere in mano il loro destino, ma anche ad assumersi la responsabilità delle loro scelte e delle loro convinzioni.
Lo farà Barack Obama domani, 10 gennaio, nel suo ultimo discorso che, non casualmente, si terrà laddove tutto era cominciato, a Chicago. Sul sito della Casa Bianca, è pubblicata una foto, che ritrae la coppia, elegantemente vestita che guarda al di là del lago lo skyline della Windy City (come è definita Chicago). Un’immagine estremamente glamour che irriterà ancora di più quell’elettorato bianco infastidito da tutto ciò che è associato alle élite culturali più che a quelle economiche, come l’elezione di Trump ha ampiamente dimostrato.
Il Farewell Address è una tradizione, avviata con il famoso discorso di George Washington che invitava gli Stati Uniti a non lasciarsi coinvolgere negli affari europei, anche se non sempre è stata rispettata.
Obama ha scelto di seguire una tradizione che vede nel discorso d’addio un modo per il presidente uscente di riaffermare la propria eredità politica e invitare il successore a tener conto che non può fare tabula rasa del recente passato. Lo stile, ovviamente, diverge a seconda dei contesti e dei presidenti. Clinton celebrò i successi economici dei suoi due mandati, i 22 milioni di nuovi posti di lavoro, il tasso di disoccupazione più basso degli ultimi 30 anni, la diminuzione dei reati. Bush Jr., invece, non poteva che concentrare il suo discorso sull’impatto dell’11 settembre e sulle minacce di attacchi terroristici che rimanevano incombenti (ribadendo così la correttezza delle sue scelte), invitando l’America a rispondere alla sfida con «moral clarity».
Obama utilizzerà quest’ultimo spazio per ribadire i successi della sua amministrazione dal punto di vista politico interno e internazionale, rispondendo a coloro che hanno giudicato fallimentare la sua politica, difendendo a spada tratta la riforma sanitaria e invitando a tenere fede ai valori americani di rispetto delle differenze e del dialogo fra le tante Americhe che compongono il mosaico sociale e politico. E, tuttavia, il discorso di Obama è atteso per quello che può far intravedere rispetto alle strategie future del presidente uscente.
Di fronte a un Congresso pronto a smantellare programmi che neppure Reagan aveva mai messo in discussione come il Medicare, tanto che, come ha osservato Immanuel Wallerstein, persino Trump è preoccupato da un radicalismo che rischia di provocare una rivolta sociale, Obama è costretto a difendere la sua eredità politica. Se nella conferenza stampa di fine anno, aveva dichiarato di vedere il suo ruolo come quello di «counsel and advice» per il partito democratico, adesso il suo impegno è estremamente più ambizioso.
Di fronte a un’elezione che ha azzerato il partito democratico, il compito primo è quello di ricostruire la leadership del partito. Per fare questo però Obama si pone un obiettivo che, in realtà, dovrebbe essere caro a leader che ambiscono ad avere una visione politica che duri più di uno spazio di tweet e che siano meno affascinati dalle sirene della post-verità (qualunque cosa essa significhi): quello della costruzione e formazione di una classe politica, di una classe dirigente. Un investimento di lungo periodo che deve accompagnarsi a un lavoro politico sul territorio che porterà Obama a visitare proprio quelle contee che Hillary Clinton aveva trascurato, pagandone amaramente il prezzo.
Proprio l’individuazione di una nuova generazione di politici democratici sembra il compito principale della Fondazione Obama che ha sede a Chicago e che vorrà, quindi, essere qualcosa di più che non la sede della presidential library. Non a caso, a capo della fondazione è stato chiamato uno stretto collaboratore di Obama, fin dalla campagna elettorale del 2008, David Simas, che in precedenza aveva lavorato per l’ex governatore democratico del Massachusetts, uno di quegli Stati che, per alcuni, devono costituire la rampa di lancio per la controffensiva del Partito democratico dal punto di vista sia delle scelte politiche sia della costruzione del consenso. Nel consiglio di amministrazione della fondazione, poi, fa parte lo stratega elettorale del 2008, David Plouffe, oltre ad altri esponenti di primo piano del partito.
Obama, quindi, ricomincia da tre, per riprendere il titolo del film del mai troppo compianto Massimo Troisi: dalle vittorie nelle primarie nel 2008, nelle presidenziali del 2008 e del 2012. Non si accontenterà, sembra, di fare il citizen-diplomat onorario come Carter, ma vorrà essere un citizen-activist. Di certo il lavoro non gli mancherà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il giorno di Donald Trump
Ha ottenuto 306 grandi elettori ed è il nuovo presidente degli Stati Uniti · *
I repubblicani conquistano sia il Senato che la Camera dei rappresentanti
Washington, 9. Donald Trump è il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Il primo autorevole commento della Santa Sede è quello del segretario di stato, cardinale Pietro Parolin, che a un gruppo di giornalisti ha dichiarato: «Prima di tutto, prendiamo nota con rispetto della volontà espressa dal popolo americano, in questo esercizio di democrazia che mi dicono sia stato caratterizzato anche da una grande affluenza alle urne. E poi facciamo gli auguri al nuovo presidente, perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso. E assicuriamo anche la nostra preghiera, perché il Signore lo illumini e lo sostenga a servizio della sua patria, naturalmente, ma anche a servizio del benessere e della pace nel mondo. Credo che oggi ci sia bisogno appunto di lavorare tutti per cambiare la situazione mondiale, che è una situazione di grave lacerazione, di grave conflitto».
Al termine di una campagna elettorale durissima e di un voto incerto fino all’ultimo, il candidato repubblicano ha largamente superato la soglia dei 270 grandi elettori necessari per arrivare alla Casa Bianca. Hillary Clinton ha riconosciuto la sconfitta in un colloquio telefonico con il suo avversario.
«È giunto il momento di cicatrizzare le ferite, il popolo americano è uno solo e dobbiamo essere uniti. A tutti i repubblicani e democratici e indipendenti nel paese, dico che è arrivato il momento di essere un popolo unito»: queste le prime parole del presidente eletto, intervenendo nella ball room dell’Hotel Hilton di New York, nel cuore di Manhattan, subito dopo l’annuncio dei risultati ufficiali. «Lo prometto a tutti i cittadini. Sarò il presidente di tutti gli americani e questo è estremamente importante per me». Poi si è rivolto all’avversaria democratica: «Ho appena ricevuto una telefonata da Hillary Clinton, vorrei farle le mie congratulazioni, ha combattuto con tutta se stessa. Ha lavorato sodo e le dobbiamo una grande gratitudine». Affiancato dall’uomo che sarà il suo vicepresidente, l’attuale governatore dell’Indiana Mike Pence, Trump ha subito tracciato le linee guida del suo programma, con toni molto diversi da quelli usati in campagna. E lo ha fatto guardando in primo luogo alla politica interna, alla classe media bianca, i colletti blu e gli operai della rust belt, quella fetta dell’elettorato piegato dalla crisi con il sostegno del quale ha costruito la sua vittoria. «Il nostro paese non sarà secondo a nessuno: ricostruiremo tutto» ha promesso Trump. «Ogni americano avrà le sue chance e tutti quelli che sono stati dimenticati in passato non lo saranno più». Poi la politica internazionale, con la volontà di rilanciare il ruolo dell’America nello scacchiere internazionale: «Con il mondo cercheremo alleanze, non conflitti; ci comporteremo in maniera giusta con tutti i popoli e le altre nazioni». A pochi passi da Manhattan, nel quartier generale dei democratici, a Brooklyn, il clima è molto diverso. Clinton non ha ancora pronunciato un discorso ufficiale. Il suo staff ha comunicato che lo farà nelle prossime ore. Fino a tarda notte, i sostenitori dell’ex first lady hanno sperato in un sorpasso, per poi arrendersi all’evidenza. In un messaggio, il presidente uscente, Barack Obama, ha ricordato la campagna «faticosa, stressante e talvolta strana per tutti noi», sottolineando però che «la nostra democrazia è sempre stata turbolenta e chiassosa: siamo passati attraverso elezioni difficili e che ci hanno diviso, ma ne siamo sempre usciti più forti».
In ogni caso, i numeri parlano chiaro. Il rischio di una vittoria con margini molto ristretti, e quindi un presidente debole, è svanito. Trump ha conquistato 306 grandi elettori, ovvero 27 stati. Il tycoon repubblicano ha saputo convincere oltre 58 milioni di americani, il 47,7 per cento. Il dato più clamoroso riguarda gli stati del Midwest, tradizionalmente democratici, come Ohio, South Dakota, North Dakota, Nebraska, o quelli più in bilico come la decisiva Florida. Hillary Clinton si è fermata a 232 grandi elettori e 19 stati. La nettezza della vittoria di Trump è confermata dai risultati relativi al Congresso. I repubblicani hanno infatti conquistato sia il senato che la camera dei rappresentanti. Secondo i primi dati, il Grand Old Party avrebbe ottenuto 240 deputati contro i 195 democratici e 53 senatori contro 47. Numerose le reazioni sul piano internazionale. Soddisfazione arriva da Mosca. Il presidente russo, Vladimir Putin, si è congratulato con il nuovo presidente, augurandosi che «i rapporti russo-americani possano uscire dalla crisi», soprattutto su dossier importanti come l’economia e il Medio oriente. Positive le reazioni anche di India e Giappone. La Corea del Sud, invece, ha convocato il consiglio sulla sicurezza nazionale, preoccupata per l’approccio verso la Corea del Nord dichiarato dal tycoon. Il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, ha detto che «la leadership degli Stati Uniti è importante nell’affrontare le nuove sfide sulla sicurezza». Stoltenberg ha assicurato la disponibilità alla piena collaborazione con la nuova amministrazione. Da Bruxelles la prima reazione europea è stata improntata al dialogo. «Continueremo a lavorare insieme, i legami tra Europa e Stati Uniti sono più forti di ogni cambiamento» ha sottolineato l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, Federica Mogherini. I presidenti del Consiglio e della Commissione, Donald Tusk e Jean-Claude Juncker, hanno invitato Trump a visitare l’Europa, affermando che «oggi è più importante che mai rafforzare le relazioni transatlantiche». Sul piano finanziario, la Borsa di Tokyo ha chiuso in calo del 5,4 per cento, al punto che è stata convocata una riunione d’emergenza del governo nipponico.
IL DISCORSO
Rimettiamoci al lavoro insieme
per ricostruire una grande America
di BARACK OBAMA *
OGGI mi trovo di fronte a voi, umile per il compito che ci aspetta, grato per la fiducia che mi avete accordato, cosciente dei sacrifici compiuti dai nostri avi. Ringrazio il presidente Bush per il servizio reso alla nostra nazione, e per la generosità e la cooperazione che ha mostrato durante questa transizione.
Quarantaquattro americani hanno pronunciato il giuramento presidenziale. Queste parole sono risuonate in tempi di alte maree di prosperità e di calme acque di pace. Ma spesso il giuramento è stato pronunciato nel mezzo di nubi tempestose e di uragani violenti. In quei momenti, l’America è andata avanti non solo grazie alla bravura o alla capacità visionaria di coloro che ricoprivano gli incarichi più alti, ma grazie al fatto che Noi, il Popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati e alle nostre carte fondamentali.
Così è stato finora. Così deve essere per questa generazione di americani.
E’ ormai ben chiaro che ci troviamo nel mezzo di una crisi. La nostra nazione è in guerra contro una rete di violenza e di odio che arriva lontano. La nostra economia si è fortemente indebolita, conseguenza della grettezza e dell’irresponsabilità di alcuni, ma anche della nostra collettiva incapacità di compiere scelte difficili e preparare la nostra nazione per una nuova era. C’è chi ha perso la casa. Sono stati cancellati posti di lavoro. Imprese sono sparite. Il nostro servizio sanitario è troppo costoso. Le nostre scuole perdono troppi giovani. E ogni giorno porta nuove prove del fatto che il modo in cui usiamo le risorse energetiche rafforza i nostri avversari e minaccia il nostro pianeta.
Questi sono gli indicatori della crisi, soggetti ad analisi statistiche e dati. Meno misurabile ma non meno profonda invece è la perdita di fiducia che attraversa la nostra terra - un timore fastidioso che il declino americano sia inevitabile e la prossima generazione debba avere aspettative più basse.
Oggi vi dico che le sfide che abbiamo di fronte sono reali. Sono serie e sono numerose. Affrontarle non sarà cosa facile né rapida. Ma America, sappilo: le affronteremo.
Oggi siamo riuniti qui perché abbiamo scelto la speranza rispetto alla paura, l’unità degli intenti rispetto al conflitto e alla discordia.
Oggi siamo qui per proclamare la fine delle recriminazioni meschine e delle false promesse, dei dogmi stanchi, che troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.
Siamo ancora una nazione giovane, ma - come dicono le Scritture - è arrivato il momento di mettere da parte gli infantilismi. E’ venuto il momento di riaffermare il nostro spirito tenace, di scegliere la nostra storia migliore, di portare avanti quel dono prezioso, l’idea nobile, passata di generazione in generazione: la promessa divina che tutti siamo uguali, tutti siamo liberi e tutti meritiamo una possibilità di perseguire la felicità in tutta la sua pienezza.
Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, ci rendiamo conto che la grandezza non è mai scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie, non ci siamo mai accontentati. Non è mai stato un sentiero per incerti, per quelli che preferiscono il divertimento al lavoro, o che cercano solo i piaceri dei ricchi e la fama.
Sono stati invece coloro che hanno saputo osare, che hanno agito, coloro che hanno creato cose - alcuni celebrati, ma più spesso uomini e donne rimasti oscuri nel loro lavoro, che hanno portato avanti il lungo, accidentato cammino verso la prosperità e la libertà.
Per noi, hanno messo in valigia quel poco che possedevano e hanno attraversato gli oceani in cerca di una nuova vita.
Per noi, hanno faticato in aziende che li sfruttavano e si sono stabiliti nell’Ovest. Hanno sopportato la frusta e arato la terra dura. Per noi, hanno combattuto e sono morti, in posti come Concord e Gettysburg; in Normandia e a Khe Sahn. Questi uomini e donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato finché le loro mani sono diventate ruvide per permettere a noi di vivere una vita migliore. Hanno visto nell’America qualcosa di più grande che una somma delle nostre ambizioni individuali; più grande di tutte le differenze di nascita, censo o fazione.
Questo è il viaggio che continuiamo oggi. Rimaniamo la nazione più prospera, più potente della Terra. I nostri lavoratori non sono meno produttivi rispetto a quando è cominciata la crisi. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari di quanto lo fossero la settimana scorsa, o il mese scorso o l’anno scorso. Le nostre capacità rimangono inalterate. Ma è di certo passato il tempo dell’immobilismo, della protezione di interessi ristretti e del rinvio di decisioni spiacevoli. A partire da oggi, dobbiamo rialzarci, toglierci di dosso la polvere, e ricominciare il lavoro della ricostruzione dell’America.
Perché ovunque volgiamo lo sguardo, c’è lavoro da fare. Lo stato dell’economia richiede un’azione, forte e rapida, e noi agiremo - non solo per creare nuovi posti di lavoro, ma per gettare le nuova fondamenta della crescita.
Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche e le linee digitali che alimentano i nostri commerci e ci legano gli uni agli altri. Restituiremo alla scienza il suo giusto posto e maneggeremo le meraviglie della tecnologia in modo da risollevare la qualità dell’assistenza sanitaria e abbassarne i costi.
Imbriglieremo il sole e i venti e il suolo per alimentare le nostre auto e mandare avanti le nostre fabbriche. E trasformeremo le nostre scuole, i college e le università per venire incontro alle esigenze dei tempi nuovi. Possiamo farcela. E lo faremo.
Ora, ci sono alcuni che contestano le dimensioni delle nostre ambizioni - pensando che il nostro sistema non può tollerare troppi grandi progetti. Costoro hanno corta memoria. Perché dimenticano quel che questo paese ha già fatto. Quel che uomini e donne possono ottenere quando l’immaginazione si unisce alla volontà comune, e la necessità al coraggio.
Quel che i cinici non riescono a capire è che il terreno gli è scivolato sotto i piedi. Gli argomenti politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non sono più applicabili. La domanda che formuliamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funzioni o meno - se aiuti le famiglie a trovare un lavoro decentemente pagato, cure accessibili, una pensione degna. Laddove la risposta sia positiva, noi intendiamo andare avanti. Dove sia negativa, metteremo fine a quelle politiche. E coloro che gestiscono i soldi della collettività saranno chiamati a risponderne, affinché spendano in modo saggio, riformino le cattive abitudini, e facciano i loro affari alla luce del sole - perché solo allora potremo restaurare la vitale fiducia tra il popolo e il suo governo.
La questione di fronte a noi non è se il mercato sia una forza del bene o del male. Il suo potere di generare benessere ed espandere la libertà è rimasto intatto. Ma la crisi ci ricorda che senza un occhio rigoroso, il mercato può andare fuori controllo e la nazione non può prosperare a lungo quando il mercato favorisce solo i già ricchi. Il successo della nostra economia è sempre dipeso non solo dalle dimensioni del nostro Pil, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di estendere le opportunità per tutti coloro che abbiano volontà - non per fare beneficenza ma perché è la strada più sicura per il nostro bene comune.
Quanto alla nostra difesa comune, noi respingiamo come falsa la scelta tra sicurezza e ideali. I nostri Padri Fondatori, messi di fronte a pericoli che noi a mala pena riusciamo a immaginare, hanno stilato una carta che garantisca l’autorità della legge e i diritti dell’individuo, una carta che si è espansa con il sangue delle generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondo, e noi non vi rinunceremo in nome di qualche espediente. E così, per tutti i popoli e i governi che ci guardano oggi, dalle più grandi capitali al piccolo villaggio dove è nato mio padre: sappiate che l’America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che sia alla ricerca di un futuro di pace e dignità, e che noi siamo pronti ad aprire la strada ancora una volta.
Ricordiamoci che le precedenti generazioni hanno sgominato il fascismo e il comunismo non solo con i missili e i carriarmati, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Hanno capito che il nostro potere da solo non può proteggerci, né ci autorizza a fare come più ci aggrada. Al contrario, sapevano che il nostro potere cresce quanto più lo si usa con prudenza. La nostra sicurezza emana dalla giustezza della nostra causa, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e del ritegno.
Noi siamo i custodi di questa eredità. Guidati ancora una volta dai principi, possiamo affrontare le nuove minacce che richiederanno sforzi ancora maggiori - una cooperazione e comprensione ancora maggiori tra le nazioni. Cominceremo a lasciare responsabilmente l’Iraq alla sua gente, e a forgiare una pace duramente guadagnata in Afghanistan. Con i vecchi amici e i vecchi nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e respingere lo spettro di un pianeta che si surriscalda. Non chiederemo scusa per il nostro stile di vita, né ci batteremo in sua difesa. E a coloro che cercano di raggiungere i propri obiettivi creando terrore e massacrando gli innocenti, noi diciamo adesso che il nostro spirito è più forte e non può essere infranto. Voi non ci sopravviverete, e noi vi sconfiggeremo.
Perché noi sappiamo che il nostro retaggio "a patchwork" è una forza e non una debolezza. Noi siamo una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e induisti e non credenti. Noi siamo formati da ciascun linguaggio e cultura disegnata in ogni angolo di questa Terra; e poiché abbiamo assaggiato l’amaro sapore della Guerra civile e della segregazione razziale e siamo emersi da quell’oscuro capitolo più forti e più uniti, noi non possiamo far altro che credere che i vecchi odi prima o poi passeranno, che le linee tribali saranno presto dissolte, che se il mondo si è rimpicciolito, la nostra comune umanità dovrà riscoprire se stessa; e che l’America deve giocare il suo ruolo nel far entrare il mondo in una nuova era di pace.
Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o scaricano sull’Occidente i mali delle loro società - sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire, non su quello che distruggete. A quelli che arrivano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno.
Alla gente delle nazioni povere, noi promettiamo di lavorare insieme per far fiorire le vostre campagne e per pulire i vostri corsi d’acqua; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quelle nazioni, come la nostra. che godono di una relativa ricchezza, noi diciamo che non si può più sopportare l’indifferenza verso chi soffre fuori dai nostri confini; né noi possiamo continuare a consumare le risorse del mondo senza considerare gli effetti. Perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con esso.
Se consideriamo la strada che si apre davanti a noi, noi dobbiamo ricordare con umile gratitudine quegli americani coraggiosi che, proprio in queste ore, controllano lontani deserti e montagne. Essi hanno qualcosa da dirci oggi, proprio come gli eroi caduti che giacciono ad Arlington mormorano attraverso il tempo. Noi li onoriamo non solo perché sono i guardiani della nostra libertà, ma perché essi incarnano lo spirito di servizio: una volontà di trovare significato in qualcosa più grande di loro. In questo momento - un momento che definirà una generazione - è precisamente questo lo spirito che deve abitare in tutti noi.
Per tanto che un governo possa e debba fare, alla fine è sulla fede e la determinazione del popolo americano che questa nazione si fonda. E’ la gentilezza nell’accogliere uno straniero quando gli argini si rompono, la generosità dei lavoratori che preferiscono tagliare il proprio orario di lavoro piuttosto che vedere un amico perdere il posto, che ci hanno guidato nei nostri momenti più oscuri. E’ il coraggio dei vigili del fuoco nel precipitarsi in una scala invasa dal fumo, ma anche la volontà di un genitore di nutrire il proprio figlio, che alla fine decidono del nostro destino.
Forse le nostre sfide sono nuove. Gli strumenti con cui le affrontiamo forse sono nuovi. Ma i valori da cui dipende il nostro successo - lavoro duro e onestà, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo - tutto questo è vecchio. Sono cose vere. Sono state la forza tranquilla del progresso nel corso di tutta la nostra storia. Quel che è necessario ora è un ritorno a queste verità. Quel che ci viene chiesto è una nuova era di responsabilità - il riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo un dovere verso noi stessi, la nostra nazione, il mondo, doveri che non dobbiamo accettare mugugnando ma abbracciare con gioia, fermi nella consapevolezza che non c’è nulla di più soddisfacente per lo spirito, così importante per la definizione del carattere, che darsi completamente per una causa difficile.
Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.
Questa è la fonte della nostra fiducia - la consapevolezza che Dio ci ha chiamato a forgiare un destino incerto.
Questo è il significato della nostra libertà e del nostro credo - perché uomini, donne e bambini di ogni razza e di ogni fede possono unirsi nella festa in questo Mall magnifico, e perché un uomo il cui padre meno di sessanta anni fa non avrebbe neanche potuto essere servito in un ristorante ora può trovarsi di fronte a voi per pronunciare il giuramento più sacro di tutti.
Perciò diamo a questa giornata il segno della memoria, di chi siamo e di quanta strada abbiamo fatto. Nell’anno in cui l’America è nata, nel più freddo dei mesi, una piccola banda di patrioti rannicchiati intorno a falò morenti sulle rive di un fiume ghiacciato. La capitale era stata abbandonata. Il nemico avanzava. La neve era macchiata di sangue. Nel momento in cui l’esito della nostra rivoluzione era in dubbio come non mai, il padre della nostra nazione ordinò che si leggessero queste parole al popolo:
"Che si dica al futuro del mondo... che nel profondo dell’inverno, quando possono sopravvivere solo la speranza e la virtù... Che la città e la campagna, allarmate da un pericolo comune, si sono unite per affrontarlo".
America. Di fronte ai nostri pericoli comuni, in questo inverno dei nostri stenti, ricordiamo queste parole senza tempo. Con speranza e virtù, affrontiamo con coraggio le correnti ghiacciate, e sopportiamo quel che le tempeste ci porteranno. Facciamo sì che i figli dei nostri figli dicano che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo permesso che questo viaggio finisse, che non abbiamo voltato le spalle e non siamo caduti. E con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e l’abbiamo consegnato intatto alle generazioni future.
* la Repubblica, 20 gennaio 2009
Alla vigilia dell’insediamento il presidente fa l’imbianchino per i poveri
"Se vogliamo avanzare nel nostro cammino dobbiamo marciare insieme"
America in festa nel giorno di Obama
"Io un nero, giuro per tutto il popolo"
dal nostro inviato MARIO CALABRESI
WASHINGTON - Nel cuore dell’area più povera e violenta di Washington, nel quartiere nero di Anacostia dove si commettono la metà degli omicidi della Capitale, il pastore della Chiesa battista "Solid Rock" ha piazzato un immenso cartello: "Il sogno di Martin Luther King si è avverato: Obama presidente".
Per la prima volta nella storia un afroamericano entra alla Casa Bianca, per la prima volta nella storia il giuramento di un presidente diventa un momento cruciale per la vita dei ghetti neri.
La scuola elementare Abram Simon, che sta ancora più a sud di Anacostia al confine con il Maryland, detiene un significativo primato: più della metà dei 332 bambini che la frequentano abbandona gli studi prima dell’ultimo anno. Sono tutti neri, all’ottanta per cento vengono da famiglie che vivono sotto la soglia di povertà e per anni sono stati il simbolo dell’esclusione. L’edificio, costruito in mezzo a case popolari e villette fatiscenti, ha le sbarre a tutte le finestre e somiglia più ad un piccolo carcere che ad una scuola. Ma per la prima volta le maestre si sono convinte che le cose possano cambiare davvero: all’ingresso la preside ha messo accanto alla foto di Martin Luther King quella di Barack Obama e ieri mattina ha accolto 200 volontari che per tutto il giorno hanno lavorato ad una grande ristrutturazione. La scuola è stata interamente ridipinta, hanno costruito una biblioteca, portato libri e fumetti per i bambini e c’è stato un concerto. La nonna di uno degli scolari, imbaccuccata in una sciarpa di lana con ricamato il nome di un nuovo presidente, fotografa il nipote che canta e si commuove: "Questa volta la storia si è ricordata di noi".
Barack Obama ne è convinto: "C’è un’intera generazione - ha detto al Washington Post - che crescerà dando per scontato che il più importante ufficio al mondo è occupato da un afroamericano. Questa è una cosa radicale: cambierà il modo in cui i bambini neri guardano a se stessi e cambia anche il modo in cui i bambini bianchi guardano a quelli neri. Non dobbiamo sottovalutare la forza di questo".
E i neri americani non lo sottovalutano: sentono che è avvenuta una rivoluzione, sentono più di tutti il senso storico del momento, ieri hanno invaso il cuore bianco di Washington e oggi lo faranno di nuovo. Sono sempre stati maggioranza nella capitale (dei 600 mila abitanti, il 55 per cento sono afroamericani) ma ora la periferia si sente protagonista, vuole festeggiare, farsi vedere. Il fiume di persone che occupa il Mall, che si ferma davanti ai cancelli della Casa Bianca, che vuole vedere il palco da cui tra poche ore parlerà Obama, è in maggioranza nero, in un Paese in cui gli afroamericani sono poco meno del 13 per cento.
"Quello che io spero di modellare - ha spiegato Obama - è un modo di interagire con le persone che non sono come te e che non sono d’accordo di te". Che la strada sia quella lo hanno detto le elezioni e lo dicono due sondaggi pubblicati ieri, secondo cui il razzismo è in ritirata in America. Non importa che oggi i suprematisti bianchi e gli appartenenti al Ku Klux Klan hanno promesso di mettere il lutto al braccio ed esporre la bandiera alla rovescia, importa che due terzi degli americani si dicano d’accordo con il pastore battista di Anacostia: il sogno del reverendo King si è compiuto.
Ieri l’America ha celebrato il leader dei diritti civili con una giornata di festa, che Obama ha voluto trasformare in un giorno di azione e di impegno per la comunità: in tutto il Paese ci sono stati più di 11mila eventi sociali come quello della scuola elementare Simon. Il futuro presidente, in maniche di camicia, ha fatto l’imbianchino, dipingendo di azzurro le pareti di un centro d’accoglienza per adolescenti senzatetto. Il suo vice, Joe Biden, si era invece trasformato in un carpentiere per una ong che costruisce case per gli homeless. "Il sogno di Martin Luther King - ha sottolineato Obama - era che tutti gli uomini potessero condividere la libertà di fare nella vita ciò che desiderano e che i nostri figli possano raggiungere traguardi più alti dei nostri. Io giurerò per tutto il popolo americano unito nel nome del reverendo King, perché i nostri destini sono inestricabilmente legati l’uno all’altro e se vogliamo avanzare nel nostro cammino dobbiamo marciare tutti insieme".
E oggi spera di farcela ad essere sotto le scale del Campidoglio anche Ann Nixon Cooper, la donna nera di 107 anni che Obama ricordò nel suo discorso la notte della vittoria a Chicago, arriverà da Atlanta e dovrebbe sedere vicino ai nove compagni di classe che più di cinquant’anni fa sfidarono la segregazione razziale per entrare tra i banchi del liceo di Little Rock in Arkansas, riservato fino ad allora a 1900 ragazzi bianchi. Per proteggerli il presidente Eisenhower dovette mandare l’esercito. Oggi un capitolo si chiude per sempre e per averlo ben chiaro bastava leggere ieri l’editoriale del Meridian Star, quotidiano del Mississippi, che si è scusato per non aver mai denunciato "L’ingiustizia della segregazione razziale".
* la Repubblica, 20 gennaio 2009
Se Obama parlasse con il nemico
di Barbara Spinelli (La Stampa, 18.01.2009)
Le grandi speranze riaccese da Obama, alla vigilia della cerimonia inaugurale di martedì che lo insedierà alla Presidenza, somigliano non poco alle Grandi Speranze che accompagnano Pip, il protagonista del romanzo di Charles Dickens. Solo in apparenza il romanzo racconta una promessa di palingenesi personale, sociale: quel che narra è in realtà un faticoso apprendistato, un addestramento alla realtà. Pip, come Obama, deve imparare a camminare da solo, e soprattutto evitare d’esser "tirato su per mano" da tutori invadenti, paternalisti. Pip è figlio d’operai, ha scarpe grosse, mani brutte. La sua vita cambia quando uno sconosciuto benefattore gli lascia i suoi beni dandogli, appunto, Great Expectations. Ma il cambiamento vero dipende da lui, da quel che farà della donazione.
Come ha scritto Kissinger sull’Herald Tribune: la magica ascesa di Obama "definisce un’opportunità, non una politica".
Il mondo che Obama eredita gli s’accampa davanti pieno di rovine, e profondamente equivoco. Anche quello di Bush si nutriva infatti di Grandi Aspettative. Ma erano promesse immateriali, capziose, che non hanno insegnato nulla all’America e anzi l’hanno corrotta, sostituendo alla realtà l’ideologia. È un mondo che ha prodotto una "mescolanza letale di arroganza e ignoranza", scrivono Robert Malley e Hussein Agha sul New York Review of Books del 15 gennaio, nel descrivere la strategia Usa in Medio Oriente. C’è del miracolismo anche nell’attesa di Obama, rafforzato dal fatto che egli è il primo Presidente nero e che corona una storia dentro la storia nazionale, che lo collega non solo a Abramo Lincoln ma a Martin Luther King. Il suo apprendistato sarà duro perché dovrà rispondere alle Great Expectations e al tempo stesso non divenir ostaggio di chi pretende d’averlo fatto re, "tirandolo su per mano". Percepito come messia, egli deve al tempo stesso spezzare i messianesimi che da secoli catturano le menti americane.
L’apprendistato non può avvenire dunque che in solitudine, sotto forma di una vasta disintossicazione che salvi la speranza ma sappia anche spegnerla quando è irrealistica. Sono tante e svariate le sostanze tossiche di cui toccherà depurare l’organismo, e come in medicina urgono terapie radicali: dalla somministrazione di antidoti alla trasfusione del sangue all’inalazione di ossigeno. In politica occorre cambiare i paradigmi, come usano dire gli esperti in finanza; congedarsi dalle illusioni d’onnipotenza e dalle ideologie che dominano la politica estera, militare, climatica. Così poliedrico è il cambiamento richiesto che il paragone con la trasfusione sanguigna non è azzardato.
Le sostanze tossiche non hanno avvelenato solo gli otto anni di Bush. Sono decenni che lo Stato americano fabbrica bolle, ipnotizzato dal miraggio d’una forza autosufficiente e universalmente egemonica. In economia ha immaginato di poter vivere indebitandosi smisuratamente, consumando senza criterio, e fidandosi d’un mercato che magicamente si autoregola; in politica estera e militare ha creduto di poter modellare il pianeta secondo una propria idea del bene e del male, e non secondo l’utilità considerata opportuna dal maggior numero di soggetti. È qui che l’arroganza s’è unita all’ignoranza, impedendo agli Usa di considerare gli interessi di altri Paesi e di nuovi potentati locali; di riconoscere i propri limiti oltre che i limiti, in genere, dello Stato-nazione alle prese con mali e sfide che non è più in grado di padroneggiare da solo.
La stoffa della bolla è antica perché risale all’idea dell’America "faro sulla collina", votata a civilizzare il mondo, dotata di incorrotta supremazia morale e politica. Il continuo parlare di carote e bastoni è parte di questa presunzione, umiliante per i popoli destinatari: nessuno - tranne forse Al Qaeda - parlerebbe così dei rapporti con Washington. Non è vero che Bush s’è disinteressato al Medio Oriente, all’Iran, all’Asia, all’Europa. Secondo Malley e Agha se n’è interessato fin troppo, diminuendo ad esempio in Israele il senso della propria responsabilità, dei confini geografici, del limite: i progressi, Israele tende a compierli quando Washington latita, e a mediare sono magari gli europei o i turchi. Lo stesso dicasi per la Russia: i cui ricatti o soprusi (nel Caucaso, sul gas) sono possibili perché l’America promette un fiancheggiamento e una presenza - in Georgia, Ucraina - del tutto ingannevoli.
È il motivo per cui i realisti, in Israele, chiedono oggi a Obama di cominciare finalmente a parlare con le forze generatrici dei conflitti, anche se nemiche mortali d’Israele come Hamas, Hezbollah, Iran. ("Vada avanti per la sua strada, Presidente, non ascolti nessuna lobby", scrive Yossi Sarid su Haaretz). In un importante articolo sul New York Review of Books, tre autori (William Luers, Thomas Pickering, Jim Walsh) sostengono che l’Europa dovrebbe costruire con Teheran un consorzio, favorito da Obama, che produca uranio arricchito in Iran (la formula multinazionale ha il vantaggio di implicare controlli multinazionali). Obama, intanto, dovrebbe avviare con Teheran colloqui senza precondizioni, dopo le presidenziali iraniane di giugno, tenendo conto degli interessi di ambedue: l’Iran è essenziale per pacificare l’Iraq e anche l’Afghanistan, essendo ostile ai talebani sunniti. Le sanzioni non rischiano di fallire: già son fallite. Così come son fallite le guerre di Bush: perché hanno generato caos nel mondo invece di stabilità, soddisfacendo solo nel brevissimo periodo il desiderio Usa di dominarlo.
I neocon che hanno scommesso su Bush hanno condotto per anni una personale e accanita guerra contro la realtà, creando miti a ripetizione. Un episodio lo prova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush (era Karl Rove) gli disse: "Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora" (New York Times, 17-10-04). La reality-based community viveva di fatti, mentre chi vive nello show mistificatorio li trascende, fino a quando la realtà si vendica.
La rottura con la realtà si è rivelata contagiosa: sin d’ora e nei prossimi anni converrà ricordarlo. La chimera dello Stato-nazione autosufficiente, la prepotenza congiunta all’ignoranza, il rifiuto di negoziare, la predilezione del breve termine rispetto al lungo, l’abitudine a violare la legalità internazionale: sono veleni di cui deve disintossicarsi l’amministrazione americana ma anche l’Europa, il mondo. Tanto più prezioso è l’annuncio di Obama: rispetterà le convenzioni internazionali sulla tortura e i prigionieri di guerra; chiuderà Guantanamo.
Sono i civili a pagare infatti chimere e menzogne. Pagano in economia, perché il fondamentalismo del laissez-faire ha colpito la gente comune e non solo Wall Street. Pagano a Gaza e nel Sud d’Israele, col sangue, la morte o il terrore. Pagano in Europa, dove milioni di cittadini gelano perché i nazionalismi russo e ucraino non sono imbrigliati da accordi multilaterali.
Ha scritto lo storico Andrew Bacevich che i grandi americani sono di rado ascoltati in patria, perché dicono cose realiste e per questo sgradite, poco trascinanti (The Limits of Power: The End of American Exceptionalism, New York 2008). Fa parte della disintossicazione riscoprire quella tradizione. È nella solitudine che Obama potrà ritrovare il realismo di Reinhold Niebuhr, il teologo profeta che nel secondo dopoguerra denunciò l’eccezionalismo americano e "il sogno di manipolare la storia, nato da una peculiare combinazione di arroganza e narcisismo: una minaccia potenzialmente mortale per gli Stati Uniti".
Un megaconcerto l’evento clou del secondo giorno di celebrazioni per l’insediamento
Stamane la visita al cimitero militare di Arlington. A Washington imponenti misure di sicurezza
Obama day, le star al Lincoln Memorial
aprono la festa per il nuovo presidente
Il successore di Bush: "Stiamo affrontando sfide serissime, non sarà facile ma sono ottimista, ce la faremo"
WASHINGTON - Arlington e il megaconcerto delle star: questi gli appuntamenti per Barack Obama nel secondo giorno di celebrazioni che toccheranno l’apice martedì con l’attesa cerimonia di insediamento alla Casa Bianca. Il presidente eletto è arrivato ieri sera a Washington in treno, sulle orme di Abraham Lincoln, e questa mattina ha voluto subito rendere omaggio al cimitero militare di Arlington, dove riposano i caduti dei conflitti combattuti dagli americani dalla guerra civile del 1861. Accompagnato dal suo vice Joe Biden, ha deposto una corona di fiori al milite ignoto. Con una mano sul cuore ha osservato un minuto di silenzio.
Poi, in un fuori programma, si è recato in uno dei luoghi storici della tradizione religiosa dei neri nella capitale americana, la ’Nineteenth Baptist Church’, una chiesa afroamericana attiva dal 1802. La visita, non annunciata ufficialmente per motivi di sicurezza, non era però un segreto per i fedeli che frequentano la chiesa: il pastore Derrick Harkins aveva preannunciato da giorni una visita ’speciale’ e per entrare la gente è dovuta passare attraverso i metal detector del Secret Service ore prima dell’arrivo di Obama.
Più leggero il programma pomeridiano, con l’appuntamento al concerto al Lincoln Memorial dove Obama e famiglia si sono recati insieme alla coppia Jill e Joe Biden. Il palco è stato eretto nello stesso luogo dove Martin Luther King pronunciò lo storico discorso "I Have a Dream". Dopo aver reso omaggio al Memorial, presidente e vicepresidente, e rispettive consorti, hanno salutato le migliaia di persone presenti.
Il concerto è stato aperto da una versione di "The Rising" di Bruce Springsteen e dalle immagini dei discorsi storici di Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy. Ricchissimo il programma, con esibizioni di star del calibro di Beyoncè, U2, Bruce Springsteen, Stevie Wonder, e interventi di attori e attrici: da Tom Hanks a Jamie Foxx, che ha fatto un’imitazione del presidente eletto; da Denzel Washington a Laura Linney. Hbo ha comprato per 2,5 milioni di dollari i diritti per l’evento, ma negli Stati Uniti il concerto potrà essere seguito gratis sul sito dell’emittente televisiva.
Già dalle prime ore del mattino a migliaia, per lo più giovani, erano in fila davanti al Memorial per assistere alla serata. Dopo che il vicepresidente ha tenuto un breve discorso esaltando la dignità del lavoro, anche Obama ha preso la parola: "Nel corso della nostra storia a poche generazioni è stato chiesto di affrontare sfide così serie come le nostre: la nostra nazione è in guerra, la nostra economia è in crisi, milioni di americani hanno perduto i loro posti di lavoro o le loro case", ha detto. "Ci vorrà più di un mese o di un anno, probabilmente molti anni" per risolvere i problemi del paese, ma "sono ottimista che gli Stati Uniti riusciranno a resistere, a prevalere e che il sogno dei nostri padri fondatori andrà avanti. Tutte le sfide sono possibili in America", ha concluso, fra gli applausi della folla.
Nonostante nelle intenzioni del Comitato per l’insediamento il concerto sia stato organizzato come un evento ’aperto’ che il presidente Obama voleva personalmente condividere con la gente, ragioni di sicurezza hanno imposto controlli severissimi, coordinati dal Secret Service. Sacco a pelo a parte, è stato vietato portare zainetti, ombrelli, thermos e qualsiasi altro oggetto o involucro che sia considerato potenzialmente rischioso.
Ieri Obama aveva aperto i quattro giorni di celebrazioni con un viaggio in treno da Filadelfia a Washington, insieme alla sua famiglia e a quella del vice-presidente Joe Biden, per ricordare un analogo viaggio fatto da Lincoln. Martedì Obama diventerà ufficialmente il 44esimo presidente degli Stati Uniti: alla storica cerimonia di insediamento per il primo afroamericano che guiderà la Casa Bianca sono attese due milioni di persone.
* la Repubblica, 18 gennaio 2009
Ansa» 2009-01-18 11:53
OBAMA DAY: PRESIDENTE ELETTO GIUNTO IN TRENO A WASHINGTON
NEW YORK - L’Obama Express, il treno che ha portato il presidente eletto Barack Obama ed il suo vice Joe Biden, con le rispettive famiglie, in un viaggio simbolico da Filadelfia a Washington, e’ giunto alla Union Station della Capitale Federale degl Stati Uniti poco dopo le 18:30 locali di ieri, la mezzanotte e mezza italiana.
Il treno, che la stampa Usa ha affettuosamente battezzato Obama Express, ha ripercorso simbolicamente il viaggio che il presidente Abramo Lincoln aveva effettuato circa un secolo e mezzo fa prima di essere insediato. Il treno e’ partito da Filadelfia, la citta’ in cui fu proclamata l’indipendenza dall’Inghilterra nel 1776, ed ha fatto tappa a Wilmington, nel Delaware, la citta’ in cui vivono Joe e Jill Biden, per farli salire a bordo.
L’Obama Express si e’ quindi fermato a Baltimora, nel Maryland, dove Obama ha preso la parola davanti a decine di migliaia di persone, che hanno sfidato il freddo polare, aspettando il presidente eletto per diverse ore. A Washington, Obama, accompagnato dalla moglia Michelle e dalle figlie Sasha e Malia, non si e’ fermato alla Union Station, e si e’ immediatamente diretto a bordo di una limousine alla Bair House, di fronte alla Casa Bianca, dove alloggia in attesa del suo insediamento martedi’ a mezzogiorno.
Ansa» 2009-01-17 18:16
E’ PARTITO DA FILADELFIA L’OBAMA EXPRESS
WASHINGTON - L’’Obama Express’, come è già stato soprannominato il treno voluto dal presidente eletto degli Stati Uniti per aprire simbolicamente le celebrazioni per il suo insediamento alla Casa Bianca, è partito da Filadelfia alla volta di Washington. Il treno ha lasciato la stazione di Filadelfia con a bordo il presidente eletto, Barack Obama, la moglie Michelle (che festeggia oggi il suo compleanno) e le figlie Sasha e Malia, oltre ad alcune altre centinaia di persone.
Il treno deve fare tappa prima a Wilmington, in Delaware, per accogliere il vicepresidente eletto Joe Biden e la moglie Jill, quindi a Baltimora (Maryland). In entrambe le soste sono previsti discorsi di Obama e Biden. L’arrivo a Washington è previsto in serata, nella notte italiana. Il viaggio è trasmesso in diretta dalle principali emittenti americane direttamente dal treno.
L’America ha oggi di fronte a sé "sfide senza precedenti", dalla crisi economica ai rischi posti dai cambiamenti climatici alla difficile situazione internazionale. Se vuole affrontarle e vincerle deve tornare allo spirito con cui i Padri fondatori si riunirono a Filadelfia e firmarono la Dichiarazione d’Indipendenza. "Perché fu qui, in questa città, che cominciò il nostro viaggio americano. Fu qui che un gruppo di contadini e avvocati, mercanti e soldati si riunirono per dichiarare la loro indipendenza e il loro diritto ad essere protagonisti del loro destino". Questo il messaggio che il presidente eletto, Barack Obama, ha fatto oggi da Filadelfia prima di intraprendere con la famiglia il viaggio in treno che lo porterà fino a Washington, ripercorrendo così lo stesso viaggio che Abramo Lincoln fece nel 1861.
A Wilmington, in Delaware, saliranno sullo stesso treno anche il vicepresidente eletto, Jo Biden, e la moglie Jill. Prevista una sosta anche a Baltimora, in Maryland. Con il discorso di Filadelfia di Obama si sono di fatto aperte le celebrazioni previste per l’insediamento del 20 gennaio alla Casa Bianca. Dureranno per quattro giorni, da oggi fino a martedì prossimo.
Nel bicentenario torna il mito dello statista che liberò gli schiavi e salvò l’Unione Lincoln, il presidente lodato da Marx
Criticato negli anni ’60, oggi è un modello per la «rinascita»
di Paolo Valentino (Corriere della Sera, 17.01.2009)
WASHINGTON - Per giurare da presidente, Barack Obama ha scelto la Bibbia che apparteneva a lui, vecchia di un secolo e mezzo, copertina di velluto e legatura in oro, normalmente custodita alla Biblioteca del Congresso. Il tema dell’inaugurazione del 44mo presidente è preso direttamente dal celebre discorso di Gettysburg: «A New Birth of Freedom», una nuova alba della libertà. Nei discorsi, nelle scelte dei ministri, nei luoghi, nell’intera iconografia della sua campagna, è sempre lui il riferimento ideale di Obama. Alla National Portrait Gallery espongono le sue maschere scultoree e le fotografie più famose. All’American History Museum è stata appena aperta una mostra sulla sua vita «straordinaria»: c’è anche il cilindro che indossava la notte in cui venne assassinato. L’omicidio avvenne al Ford’s Theatre, anche questo già restaurato e fra poco riaperto. E per gli appassionati della mondanità, l’American Art Museum dedica una sala al suo ballo inaugurale, dove si possono vedere anche inviti e menu originali. Mentre una raffica di nuovi saggi e biografie, fra cui quella monumentale di Michael Burlingame, che ha scoperto lettere inedite e articoli considerati perduti, scandisce l’inizio dell’anno del suo bicentenario.
Ma non è soltanto una celebrazione. L’America è di nuovo innamorata di Abraham Lincoln (1809-1865), il sedicesimo presidente, l’uomo dell’Illinois che emancipò gli schiavi, il redentore degli ideali americani che salvò l’Unione e cambiò la storia del mondo. «No Lincoln, no nation», ricorda con la solita verve Christopher Hitchens. È una riconsiderazione collettiva, che la drammatica situazione del Paese, di fronte alla prospettiva di una nuova Grande depressione, rende ancora più appassionata e urgente. È a Lincoln in altre parole che gli americani, primo fra tutti il nuovo presidente, sembrano nuovamente guardare per ritrovare ispirazione e visione.
Non sempre è stato così. Come mostra Harold Holzer nella sua Lincoln Anthology: 85 Writers on his Life and Legacy from 1860 until Now, il giudizio su Lincoln è stato sempre molto variegato e controverso. Negli anni Sessanta, per esempio, il «grande emancipatore» era stato ridimensionato sia da destra che da sinistra. La cultura liberal gli contestava che il suo vero obiettivo fosse stato preservare l’Unione, non già abolire la schiavitù: in una lettera del 1862, Lincoln non ne faceva mistero, spiegando che avrebbe tenuto insieme l’Unione anche «senza liberare un solo schiavo», ovvero «liberandoli tutti», o ancora «liberandone solo alcuni ». E quelli liberati li avrebbe volentieri incoraggiati a emigrare in Africa.
A destra, a parte l’eterno risentimento sudista che fino al 1964 penalizzò il Partito repubblicano, il suo partito, negli ex Stati della Confederazione, un editoriale sulla National Review di William Buckley lo descriveva come «essenzialmente negativo per il genio e la libertà del nostro Paese», considerandolo un centralista, nemico dei diritti degli Stati. Su questo giudizio forse pesava anche la lettera di congratulazioni che Karl Marx gli scrisse nel 1864, in occasione della sua rielezione, dove fra l’altro il padre del comunismo affermava ( sic) che «i lavoratori d’Europa sentono istintivamente che la bandiera a stelle e strisce porta il destino della loro classe».
Ma il bicentenario, l’ascesa alla presidenza di un altro uomo dell’Illinois, l’arrivo alla Casa Bianca del primo afroamericano, che porta al suo logico esito l’emancipazione iniziata nel 1862, lo spettro della depressione sono gli ingredienti che hanno contribuito alla riscoperta di Lincoln. Perché fu lui, nel momento in cui fallì il compromesso originario, che aveva ipocritamente conciliato la schiavitù con la più democratica Costituzione del mondo, a salvaguardare il più grande esperimento di autogoverno della storia, sia pure al prezzo di una sanguinosa Guerra civile.
Offre un canovaccio, il sedicesimo presidente, agli Stati Uniti di Obama? C’è stato molto dibattito, nelle settimane scorse, intorno al libro di Doris Kearns Goodwin, Team of Rivals: the Political Genius of Abraham Lincoln, pubblicato nel 2005, che racconta come nel suo primo gabinetto il «grande emancipatore» volle tutti gli ex avversari politici. Il neopresidente lo ha indicato come una delle sue letture preferite, fonte di ispirazione per la composizione del suo governo: la scelta di Hillary Clinton per il dipartimento di Stato e la conferma del repubblicano Gates al Pentagono rispondono a questa logica. «Ma quello era un costume del tempo. Il punto non sono gli avversari, quanto le personalità forti », osserva lo storico Eric Foner, della Columbia University, autore dell’antologia Our Lincoln: New Perspectives on Lincoln and His World. Secondo Foner, «il confronto con presidenti recenti ci dice che spesso essi hanno scelto come ministri degli yesman dei loro Stati, quindi non hanno mai dovuto misurarsi con punti di vista diversi e opposti». In questo senso, per Foner, Lincoln offre ancora un modello: «La squadra dei rivali può funzionare. Ma il compito è più difficile. La Guerra civile contribuì all’impressione di un governo di unità nazionale. Non so se la crisi economica farà altrettanto».
Secondo Andrew Delbanco, uno degli autori dell’antologia di Foner, nonostante i suoi traumi la Guerra civile, a differenza di altre guerre, non lasciò l’America in crisi e priva di una causa o di una visione. Lincoln cioè seppe trovare «un significato trascendente al massacro», in grado di parlare sia ai vincitori che agli sconfitti. Fu il miracolo di Gettysburg, dove in meno di due minuti Lincoln diventò un nuovo padre fondatore, definendo una nuova visione e una nuova missione.
Oggi le sfide sono diverse, ma non meno gravi. Eppure, secondo Harold Holzer, che in Lincoln President-Elect racconta la transizione presidenziale dell’inverno 1860-61, «come allora, la leadership può venire non tanto dall’esperienza, ma dalla serietà, dal senso del dovere, dall’umiltà e dalla comprensione degli altri».
Alla National Portrait Gallery, la celebre foto scattata da Alexander Gardner nel febbraio 1865, due mesi prima della morte di Lincoln, sembra anticiparne la fine. Proprio sopra la fronte, nel punto in cui la pallottola di John Wilkes Booth andò a conficcarsi, una crepa attraversa la lastra. Nella stampa, il negativo si era rotto. Ma per una volta, lo sguardo del vecchio Abe sembra addolcirsi in un mezzo sorriso. Forse è della promessa di quell’ottimismo, che hanno bisogno oggi l’America e il mondo.
Lo storico Eric Foner: «L’idea del primato Usa, come Lincoln»
dall’inviato Claudio Gatti (Il Sole-24 Ore, 21 Gennaio 2009)
NEW YORK - Numero 16 e numero 44. Tra loro un secolo e mezzo di storia americana. E tante similitudini. In una giornata così carica di simbolismo, il parallelo tra il sedicesimo presidente americano Abramo Lincoln e il quarantaquattresimo Barack Obama è sicuramente concesso. Anzi d’obbligo. Anche perché lo stesso Obama ha fatto molto per evocarlo. Prendendo il treno da Philadelphia a Washington, come il suo storico predecessore. E scegliendo come motto per la sua inaugurazione le parole pronunciate da Lincoln nello storico discorso del 1863 a Gettysburg sulla «rinascita della libertà».
«Volendo ispirarsi a un modello del passato, ben venga un modello come Lincoln», commenta Eric Foner, professore di Storia americana della Columbia University, la stessa dove ha studiato Obama.
Entrambi avvocati, entrambi impegnati in politica sin da ventenni, entrambi si sono fatti le ossa nel Parlamento dell’Illinois, uno Stato in cui si erano trasferiti da adulti (Lincoln era nato in Kentucky, Obama nelle Hawaii). Entrambi hanno criticato un’invasione che il resto del Paese aveva invece passivamente accettato (in Messico nel 1846 e in Iraq nel 2003). Ed entrambi sono arrivati a Washington sospinti dalla forza delle loro parole più che dalla mole delle loro esperienze. Persino i loro risultati elettorali sono stati molto simili.
Foner pensa che sulle grandi questioni di principio, come il campo di prigionia di Guantanamo e l’uso della tortura, Obama seguirà l’esempio di Lincoln sulla schiavitù e prenderà una posizione univoca e risoluta. «Nel 1854 Lincoln scrisse: "La schiavitù incoraggia i nemici della democrazia ad accusarci di ipocrisia e spinge i veri amici della libertà a dubitare della nostra sincerità". Direi che le stesse parole valgono oggi per alcuni metodi con cui l’amministrazione Bush ha voluto combattere il terrorismo», commenta lo storico newyorkese.
Sia chiaro, come Lincoln, Obama è un convinto assertore del cosiddetto "eccezionalismo americano". «Solo in America una vittoria come la mia sarebbe stata possibile», ha ripetutamente sostenuto. «Ma come Lincoln anche lui è convinto che quell’eccezionalismo sia nell’origine democratica della nazione, nella Dichiarazione di Indipendenza, in quella che ha definito "l’immortale convinzione che il nostro Paese è costantemente in grado di rigenerarsi e trasformare i suoi sogni in realtà"», sostiene Foner.
«Lincoln riteneva che l’America fosse un modello per il resto del mondo. Ma non un modello da imporre con la forza. Per lui gli Stati Uniti rappresentavano la democrazia e l’autogoverno del popolo per il popolo, e riteneva che dovessero spingere il mondo ad adottare questi principi. In Europa la rivoluzione del 1848 era da poco fallita. Era stato ristabilito la situazione che precedeva i moti liberali e la giovane democrazia americana era, come scrisse Lincoln nel 1962, "l’ultima grande speranza sulla terra". Speranza per chi credeva nell’uguaglianza e nella democrazia. Ma questo non aveva nulla a che vedere con il cosiddetto "destino manifesto", e cioè la teoria che l’espansionismo territoriale e culturale fosse nel destino degli Stati Uniti. Teoria che evoca invece le scelte geopolitiche di quest’ultima amministrazione».
In un articolo in prima pagina di due giorni fa, il New York Times ha scritto che all’università, impegnandosi nella lotta all’apartheid in Sud Africa, Obama ha scoperto la forza della parola e «la sua capacità di trasformare il mondo». «Come Lincoln ha l’eloquenza per tentare di farlo», sostiene Foner. Anzi, a suo giudizio, è più eloquente di Lincoln. Che non era per nulla spontaneo. «La straordinaria efficacia dei suoi discorsi veniva dal fatto che ci lavorava con meticolosità, costruendoli pezzo per pezzo, argomentazione per argomentazione. In alcuni inseriva addirittura le note a pié pagina», conclude lo storico. Obama è un oratore più naturale. Ma anche lui lavora sui propri discorsi in modo quasi ossessivo. Nella migliore tradizione lincolniana.
cgatti@ilsole24ore.us
Obama e la maestà della legge
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 25/1/2009)
Sin dal primo giorno del proprio mandato, Barack Obama ha fatto capire qual è la sua idea di emergenza, e cosa significa nella storia delle democrazie liberali. I dizionari spiegano che l’emergenza è una situazione di pericolo o crisi inaspettata, nella quale le pubbliche autorità si mettono in allarme e assumono poteri speciali. Per Carl Schmitt, che negli Anni 20 e 30 teorizzò la superiorità del potere assoluto sullo stato di diritto, l’eccezione è «più interessante» del «caso normale»: quest’ultimo è fatto di procedure ripetitive, che intralciano la capacità decisionale del vero sovrano. La vera autorità «non ha bisogno della legge per creare legge». Essa crea proprie leggi, piegando procedure e costituzioni al proprio buon volere e al mondo nuovo che promette: le sue leggi, di volta in volta ad personam o ad hoc, instaurano lo stato di pericolo e sospendono routine normative ritenute inani. Al posto della fiducia si inocula nel popolo la paura. Nel continente della libertà si dilata lo spazio della necessità. Riprendendo Hobbes, Schmitt conclude che non la verità «fa la legge» ma l’autorità, rivelata e temprata dalla situazione limite (Grenzfall).
Precisamente questo è accaduto nei due mandati dell’amministrazione Bush, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: la Costituzione è stata sottomessa alle esigenze del principe e all’accentramento del potere presidenziale. A dominare non era più l’imperio della legge (la rule of law) ma il sovrano e la contingente ideologia da esso incarnata. La prigione extraterritoriale di Guantanamo, dove non valgono le leggi costituzionali americane; le commissioni militari che senza garanzie giuridiche esaminano i detenuti; l’uso della tortura; l’abolizione dell’habeas corpus, ovvero del diritto (risalente al 1679) che ciascuno ha di conoscere i motivi della propria detenzione: queste le misure che hanno trasformato centinaia di prigionieri in animali cui è stato sequestrato il corpo, come direbbe Foucault.
Obama ha messo fine a tali arbitrii, che aboliscono l’equilibrio tra i poteri voluto dal pensiero liberale. Ed è importante che sia il suo primo gesto, perché qui è la vera urgenza dei giorni nostri, non solo negli Stati Uniti. La vera emergenza è l’idea stessa di un’emergenza continua, abbinata alla promessa di rottura col passato e al proliferare di leggi ad hoc: l’esempio statunitense ha rafforzato in molte democrazie questa mistificazione emergenziale-rivoluzionaria. È stata una loro regressione infantile, fondata sulla convinzione che la democrazia non avesse una storia lunga, fatta di norme e routine, ma fosse una pagina tutta bianca da colorare a piacimento. Il principe-bambino fa quel che crede, immaginandosi onnipotente. Ritorna allo stato precedente la separazione dei poteri di Montesquieu, quando il potere che s’espande abusivamente non è ancora fermato da altri poteri. In un passaggio chiave del discorso inaugurale, il 20 gennaio, Obama ha citato la prima lettera di Paolo ai Corinzi (13,11): «Rimaniamo una nazione giovane, ma come nelle parole della Scrittura, è venuto il tempo di metter da parte le cose infantili».
«Divenir uomo» consiste nel ritorno alla norma, nella scoperta del proprio limite, nell’abbandono della speciale arroganza unita a ignoranza che caratterizza l’infanzia. Non sarà facile, perché l’America resta ufficialmente in stato di guerra con il terrorismo, nonostante la volontà presidenziale di «tendere la mano a chi vuol aprire il proprio pugno». Anche se la guerra continua tuttavia, occorre restar fedeli alla Costituzione e alla separazione dei poteri. Occorre far capire al mondo che i prigionieri di Guantanamo saranno correttamente giudicati, che l’America non torturerà né a Guantanamo né in prigioni segrete sparse nel mondo. L’inverno dell’avversità cui ha accennato Obama esige la restaurazione della rule of law: «Noi respingiamo come falsa la scelta fra la nostra sicurezza e i nostri ideali».
È una presa di posizione al tempo stesso morale e pratica. La tortura di prigionieri privati di habeas corpus non ha facilitato la guerra al terrorismo, ma l’ha complicata e invalidata. I video di Abu Ghraib sono usati da Al Qaeda come efficacissimo mezzo di reclutamento. Neppure in stato d’estremo pericolo (la bomba a orologeria che può esser sventata ricorrendo alla tortura) le leggi d’eccezione sono utili. In Italia se ne discusse nell’estate 2006: ci furono intellettuali e editorialisti democratici che aprirono alla tortura, pensando che l’ineluttabile spirito dei tempi fosse ormai questo.
Sono tanti gli studi che sostengono che la tortura, oltre a essere immorale in ogni circostanza, è probabilmente inservibile. Essa rende più difficile la cooperazione internazionale, perché le confessioni estorte sono inutilizzabili da inquirenti e tribunali. Il giudice spagnolo Garzón è di quest’opinione, e ha inoltre accusato le autorità Usa di tener nascosti in prigioni segrete testimoni essenziali per chiarire l’attentato del 2004 a Madrid. Peter Clarke, ex capo della polizia antiterrorista inglese, ha detto all’Economist nel luglio scorso: «Ogni evidenza raccolta a Guantanamo è inammissibile». Un uomo umiliato, cui si infligge l’annegamento simulato (waterboarding), confessa ogni sorta di bugia. David Danzig in un articolo su Huffington Post del 22 gennaio ricorda come i maggiori successi siano stati raggiunti da un’«arte dell’interrogatorio» che rifiuta la violenza, e preferisce l’astuto colloquio con pentiti e perfino con combattenti: Saddam Hussein e al-Zarqawi, ex capo di Al Qaeda in Iraq, furono scovati così.
Non sarà semplice smantellare le tante leggi ad hoc create nell’emergenza terrorismo, in America ed Europa. Perché sono leggi che lavorano nel buio, aggirando perfino sentenze delle Corti Supreme come quella statunitense, che ha restituito ai prigionieri l’habeas corpus. Non è semplice perché ancora deve esser affrontata la questione fondamentale: è veramente guerra quella che viviamo? e se lo è come chiamare l’avversario? E se non è guerra cos’è? Nemmeno Obama ha la risposta, che pure gli toccherà dare senza attendere altri sette anni. E ancor meno sanno rispondere i governi europei, che adottano leggi emergenziali d’ogni tipo (sul terrorismo e sull’immigrazione) evitando furbescamente di dichiararsi nazioni in guerra. Siamo lontani, qui, dalle autocritiche americane. Tony Blair, che ha mimato ogni mossa e ogni disastro di Bush, ancora non è chiamato alla resa dei conti.
Ma qualcosa è cominciato, con una prontezza che fa onore a Obama. Qualcosa comincia a esser detto: che essere uomini adulti in democrazia vuol dire rispettare leggi antiche, messe alla prova in situazioni ben più difficili di quella presente. Che il sovrano capriccioso e falsamente decisionista ha un comportamento immaturo. Che le tradizioni giuridiche contano: quelle racchiuse nelle costituzioni e quelle iscritte in leggi internazionali che Bush ha sprezzato, come la convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri. L’ansia di innovare a tutti i costi può esser letale, in democrazia. Il mito della «rottura» si sfalda. «Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza», ha detto Obama ai connazionali. Non a caso martedì li ha apostrofati in maniera inedita: invece di My fellow Americans, li ha chiamati My fellow citizens.
La questione morale coincide con il ritorno alla cultura della legalità, in America come in Europa. È la più grande necessità del momento: non si restaurerà una duratura fiducia tra governati e governanti, senza riconversione all’imperio della legge. Non si risaneranno l’economia, la politica, il clima. L’alternativa è chiudersi in belle bolle e ignorare i fatti: anche la bolla è qualcosa di molto infantile, che brilla di tanti colori fino a quando (inaspettatamente per i bambini) esplode.