Siani, la verità uccisa a Gomorra
di Alberto Crespi *
È fin troppo facile individuare i motivi per elogiare Fortapàsc, tredicesimo film del 57enne Marco Risi. La volontà (lungamente frustrata, per anni a nessuno è sembrato importar nulla di questo film) di togliere dall’oblìo una storia italiana fondante, quella del giovane cronista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra nel 1985.
La capacità di legare un caso di cronaca vecchio di cinque lustri all’attualità, come a leggere nella Torre Annunziata degli anni ’80 (quella che per il sindaco Cassano «non era Fortapàsc»...) i segnali di un degrado che prosegue nella Napoli della «munnezza» e della politica sempre più compromessa con il crimine organizzato. L’ostinazione con la quale Marco Risi - che è anche, non dimentichiamolo, l’autore del Muro di gomma, sulla strage di Ustica - continua a ricordarci che l’Italia è un paese di misteri irrisolti e forse irrisolvibili. Perché è vero che 8 anni dopo il delitto, grazie alla collaborazione di alcuni pentiti, gli assassini materiali di Siani finirono in galera: ma è altrettanto vero che nessuno ha spiegato, né spiegherà mai, perché il clan dei Nuvoletta (referente campano dei corleonesi di Totò Riina) decise di eliminare un giovane praticante di soli 26 anni che aveva annusato «qualcosa» di troppo grande.
Quel «qualcosa», in fondo, è una cosa al tempo stesso ovvia e indicibile: l’alleanza trasversale tra le varie mafie, che probabilmente proprio in quegli anni diventa un contro-potere con agganci ai più alti livelli della politica e dell’economia. Senza saperlo, Siani aveva visto nascere Gomorra: un parto mostruoso che non doveva essere raccontato. Al punto che il primo film sul caso-Siani, E io ti seguo di Maurizio Fiume, fu silenziosamente boicottato da molti (incluso il giornale dove Siani lavorava, Il Mattino), e fatto sparire dalla distribuzione (in questi giorni lo si può acquistare in dvd assieme alla rivista napoletana Chiaia Magazine).
Questo scenario è già un ottimo motivo per vedere Fortapàsc, per apprezzare il modo in cui Risi - con la collaborazione alla sceneggiatura di Jim Carrington e Andrea Purgatori - l’ha costruito, e la bravura di quasi tutti gli attori. Siani è Libero De Rienzo, che si sforza eroicamente di assomigliargli. Michele Riondino e Valentina Lodovini sono il suo migliore amico e la sua fidanzata, ma i loro personaggi sono forse i più sfocati del film, mentre sono clamorose, quasi shakespeariane, alcune prove dei «cattivi»: da Gigio Morra (il boss Carmine Alfieri) a Massimiliano Gallo (l’altro boss Valentino Gionta), dai soliti magnifici «reduci da Gomorra» Gianfelice Imparato (il pretore Rosone) e Salvatore Cantalupo (il camorrista Ferrara), fino al capo-cronista del Mattino di Torre Annunziata Sasà (il sempre grande Ernesto Mahieux) al quale Risi affida la tirata sull’Italia come paese più adatto ai «giornalisti impiegati» che ai «giornalisti giornalisti».
COME TARANTINO
Ma vorremmo utilizzare le ultime righe per parlare di Fortapàsc come film. Che Marco Risi sia un bravo regista, lo sappiamo dai tempi di Mery per sempre. Ma Fortapàsc è un salto di qualità importante, del quale papà Dino (al quale il film è dedicato) sarebbe giustamente orgoglioso. Osservate la scena della cruentissima strage nelle vie di Torre Annunziata: Tarantino non l’avrebbe girata meglio, né con più efferatezza. Osservate il montaggio alternato fra il summit dei boss e la seduta del consiglio comunale: certo, è un omaggio a Le mani sulla città, ma ricorda anche il ferocissimo parallelo di M (Fritz Lang, come no?) tra la riunione dei ladri e quella dei poliziotti, tutti a caccia del serial-killer (il montaggio, di Clelio Benevento, è strepitoso). Come nei momenti più crudi di Gomorra, sembra sia tornato il «poliziottesco» degli anni ’70; ma riciclato con una coscienza civile nuova, al tempo stesso disperata e combattiva. Finché esistono film come Fortapàsc, questo paese non è morto.
* l’Unità, 27 marzo 2009