L’ANALISI
I cittadini cyborg dell’impero digitale
Nessuno di noi possiede ancora le categorie, le mappe e la bussola per questo mondo nuovo. Siamo stati catapultati dai successi della modernizzazione, dalla crescente evoluzione tecnologica, in ambiti e possibilità d’azione dei quali non siamo ancora in grado di approntare descrizioni adeguate
di ULRICH BECK (la Repubblica, 01 agosto 2013)
Lo scandalo Prism ha aperto un nuovo capitolo della società mondiale del rischio. Nel corso degli ultimi decenni abbiamo conosciuto una serie di rischi pubblici mondiali: il mutamento climatico, il rischio nucleare, il rischio finanziario, l’11 settembre e ora il rischio digitale e globale della libertà. Tutti questi rischi (ad eccezione del terrorismo) sono parte, in certo modo, di un sviluppo tecnologico. Sono anche parte dei timori espressi durante la fase di modernizzazione di questa nuova tecnologia. Improvvisamente, però, accade un evento che segnala all’opinione pubblica mondiale il problema legato all’uno o all’altro di questi rischi: è quanto è accaduto con le rivelazioni di Snowden, che hanno evidenziato il rischio della libertà. Tuttavia, dietro questo episodio si nasconde un’altra logica del rischio. Nel caso di quello nucleare, gli incidenti dei reattori di Chernobyl e poi di Fukushima hanno dato luogo a una discussione pubblica. Nel caso del rischio digitale della libertà, invece, il punto di partenza non è stato l’evento catastrofico, poiché la catastrofe sarebbe avvenuta, ma nessuno se ne sarebbe accorto.
Della possibile catastrofe si è avuta consapevolezza solo perché un singolo esperto dei servizi segreti degli Stati Uniti ha mostrato al mondo il rischio usando gli stessi mezzi del controllo informativo. Ciò significa un completo capovolgimento della situazione.
Questo stato di cose rende estremamente fragile la consapevolezza del rischio, poiché - a differenza dagli altri rischi globali - tale consapevolezza non orienta su una catastrofe che esiste fisicamente e realmente nello spazio e nel tempo, non nasce da essa e non viene continuamente riferita ad essa. Perciò viene di colpo infranta l’ovvietà, il farsi quasi una seconda natura, delle possibilità di controllo dell’informazione. Tuttavia, questa rivelazione dà anche luogo a continue resistenze.
I rischi globali hanno alcuni aspetti in comune. Tutti rendono quotidianamente percepibile l’interdipendenza globale. Tutti sono in un senso particolare globali, cioè non si basano su incidenti spazialmente, temporalmente e socialmente circoscritti, ma su catastrofi spazialmente, temporalmente e socialmente sconfinate. E tutti sono effetti collaterali dei successi della modernizzazione. Nel caso del rischio della libertà, dunque, le possibilità di controllo offerte dalla democrazia nell’ambito dello Stato nazionale; negli altri casi, il calcolo delle probabilità, la tutela assicurativa, eccetera. Inoltre, tutti questi rischi hanno in comune il fatto di essere percepiti in modo molto differente nei diversi angoli del mondo.
Abbiamo poi a che fare con un’inflazione di catastrofi incombenti, dove l’una minaccia di prendere il sopravvento sull’altra. Il rischio finanziario ammazza il rischio ambientale. Il rischio terroristico ammazza quello digitale della libertà. È questo, d’altronde, uno degli ostacoli più importanti alla possibilità che il rischio della libertà venga riconosciuto pubblicamente e diventi oggetto di un’azione pubblica.
Riflettendo su quale potente attore abbia davvero interesse a creare una consapevolezza pubblica di questo rischio e, conseguentemente, a motivare all’agire politico, il primo che verrebbe in mente sarebbe lo Stato democratico. Ma sarebbe come fare del lupo il guardiano dell’ovile. Questo però potrebbe essere un passo storico verso la fuoriuscita dal pluralismo degli Stati nazionali, in direzione di uno Stato mondiale digitale che si è sottratto a tutti i controlli.
Il cittadino sarebbe il secondo attore che si potrebbe mettere in campo. Tuttavia, gli utenti dei nuovi media digitali dell’informazione sono già diventati in qualche modo dei cyborg. Utilizzano questi media come organi di senso. La generazione Facebook vive in questi media, rinunciando a gran parte della propria libertà individuale e della propria sfera privata.
Tuttavia, occorre fare un passo avanti e chiedersi se, come sociologi, uomini della strada e utenti di questi strumenti digitali di informazione abbiamo già concetti adeguati per descrivere quanto profondi e radicali siano i cambiamenti da essi introdotti nella società. Nessuno di noi possiede ancora le categorie, le mappe e la bussola per questo mondo nuovo. Siamo stati catapultati dai successi della modernizzazione, dalla crescente evoluzione tecnologica, in ambiti e possibilità d’azione dei quali non siamo ancora in grado di approntare descrizioni adeguate.
Si parla di continuo della nascita di un nuovo impero digitale. Ma nessuno degli imperi storici che conosciamo, quello dei greci, quello dei persiani o quello dei romani, aveva le caratteristiche che contraddistinguono l’odierno impero digitale. Questo impero digitale si basa su aspetti della modernità sui quali non abbiamo ancora riflettuto a dovere. Non si fonda sulla forza militare, né possiede la capacità di un’integrazione politicoculturale al di là delle distanze. Dispone però di possibilità di controllo estensive e intensive, così ampie e profonde da svelare tutte le preferenze e le debolezze individuali - diventiamo tutti trasparenti come il vetro.
Tuttavia, queste possibilità di controllo non vengono colte dal concetto di impero così com’è stato inteso finora. E ora si aggiunge questa sostanziale ambivalenza: abbiamo enormi possibilità di controllo, ma contemporaneamente un’inimmaginabile vulnerabilità di questi controlli digitali. Nessuna potenza militare, nessuna insurrezione, nessuna rivoluzione, nessuna guerra minaccia l’impero del controllo, ma a farlo vacillare - rivolgendo il sistema informativo contro sé stesso - è un solo, coraggioso individuo, un trentenne esperto dei servizi segreti. L’inimmaginabilità del controllo e l’inimmaginabile vulnerabilità del medesimo sono due lati della stessa medaglia.
In questo sistema di controllo apparentemente iper-perfetto c’è dunque una possibilità di resistenza dell’individuo, che non si era mai vista prima. Una delle questioni più importanti è dunque se in queste grandi aziende digitali non dobbiamo introdurre giuridicamente, dapprima forse a livello nazionale, poi a livello europeo, quello che potremmo chiamare un "sindacato whistleblower" (che denuncia irregolarità) e, prima di ogni altra cosa, anche un dovere di resistenza nel lavoro.
Ora, però, l’uomo della strada dispone - a differenza da Snowden - di un sapere di gran lunga minore relativamente alla struttura e alla potenza di questo cosiddetto impero. Questo però non vale per la giovane generazione dei nuovi Colombo, che fa dei social network un prolungamento del proprio corpo comunicativo. Qui diventa chiara una conseguenza essenziale. Il rischio di una lesione dei diritti di libertà viene valutato diversamente rispetto, ad esempio, a una lesione della salute, provocata dal mutamento climatico. La lesione della libertà non duole, non la si percepisce, non si contraggono ma-lattie, non si subiscono inondazioni, non si soffre della mancanza di opportunità sul mercato del lavoro. In tutti i sistemi politici la promessa di sicurezza è il vero e proprio nucleo della forza statale e della legittimazione statale, mentre la libertà ha sempre una posizione o un ruolo di secondo piano. Perciò, dal mio punto di vista di sociologo, il rischio della libertà è il rischio più fragile tra le minacce globali che si sono finora manifestate.
Che fare, dunque? Propongo di formulare qualcosa come un umanesimo digitale. Occorrerebbe fare del diritto fondamentale alla tutela dei dati e alla libertà digitale un diritto umano globale, cercando di imporre questo diritto, come altri diritti umani, anche contro la resistenza.
Non ci sono obiettivi più ridotti. Ciò che manca è però un’istanza internazionale in grado di affermare tali esigenze. Su questo punto il rischio della libertà non si distingue dal rischio del mutamento climatico. La litania è sempre questa: lo Stato nazionale non può farlo. Non c’è attore a livello internazionale che possa essere preso in considerazione a questo scopo. Ma c’è un’inquietudine generale, il rischio globale ha un’enorme forza di mobilitazione che mette in ombra tutto quello che c’era prima, ad esempio la classe operaia. Proprio la riflessione costante sulla minaccia di amico e nemico potrebbe benissimo condurre a processi di formazione delle norme a livello mondiale. Allora la coscienza giuridica delle norme globali nascerebbe per così dire a posteriori, dal terrore dell’opinione pubblica mondiale per la loro violazione. Abbiamo bisogno di un’invenzione transnazionale della politica e della democrazia che dischiuda la possibilità di far rivivere e riaffermare i diritti democratici fondamentali contro il predominio del monopolio del controllo totalmente autonomizzato.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)