Com’è cambiata l’arte di esistere
IL MONDO LIQUIDO E LA FELICITA’
Bauman: i nuovi valori della vita
Bisogna affrontare le sfide difficili, cercando di dare una forma a quel che è indefinito. Ed essere consapevoli che lo sforzo sarà sempre enorme
Servono legami responsabili: l’amore richiede cure, non consumo
Il nostro tempo è governato "dall’economia delle esperienze"
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 07.05.2009)
Anticipiamo un brano del nuovo libro di "L’arte della vita" (Laterza, pagg.178, euro 15) da oggi in libreria
Ognuno di noi è artista della propria vita: che lo sappia o no, che lo voglia o no, che gli piaccia o no. Essere artista significa dare forma e struttura a ciò che altrimenti sarebbe informe e indefinito. Significa manipolare probabilità. Significa imporre un «ordine» a ciò che altrimenti sarebbe «caos»: «organizzare» un insieme di cose ed eventi che altrimenti sarebbe caotico (casuale, fortuito e dunque imprevedibile), rendendo così più probabile il verificarsi di certi eventi anziché di altri.
A chi dovremo ispirarci per sapere come organizzare (e organizzarci), se non ai professionisti, a chi è responsabile di quelle entità che si chiamano «organizzazioni»?
Fino a pochissimo tempo fa il concetto di «organizzazione» era entrato a far parte dell’uso comune associato a grafici, diagrammi, organigrammi, dipartimenti, tempistiche, regolamenti; alla vittoria dell’ordine (di uno stato in cui si fa in modo che alcuni eventi siano molto più probabili di qualsiasi altro) sul caos (su uno stato in cui ogni cosa ha la stessa probabilità o una probabilità incalcolabile di accadere).
Ho scritto «fino a pochissimo tempo fa» perché oggi, entrando nella sede centrale di un’organizzazione, si sentono soffiare i venti del cambiamento. Qualche anno fa Joseph B. Pine e James H. Gilmore pubblicarono un libro, L’economia delle esperienze, il cui titolo (sicuramente anche grazie all’aiuto dalle credenziali della Harvard Business School) accese immediatamente la fantasia degli studenti di Economia aziendale, elevando l’attuale modo di pensare di direttori e presidenti di aziende a nuovo paradigma degli studi di organizzazione.
In un volume di stimolanti saggi pubblicato dalla Copenhagen Business School Press, i curatori Daniel Hjorth e Monika Kostera hanno delineato in termini generali e con notevole ricchezza di particolari il percorso dal vecchio paradigma organizzativo, imperniato sul «management» e sulla priorità del controllo e dell’efficienza, al paradigma emergente, che guarda soprattutto allo spirito imprenditoriale e sottolinea «le caratteristiche più vitali dell’esperienza: immediatezza, spirito ludico, soggettività e performatività».
Niels Akerstrom, docente alla Copenhagen Business School, paragona l’attuale situazione del dipendente di un’organizzazione a quella che si vive oggi da sposati o conviventi. L’analisi di Akerstrom sulla tendenza a ridefinire le organizzazioni secondo uno schema simile a quello delle relazioni d’amore ci rinvia a una trasformazione ancora più vasta, che è probabilmente alla base del «cambio di paradigma»: alla trasformazione profonda del ruolo svolto nel contesto liquido-moderno dai legami umani, in particolare dai rapporti d’amore e più in generale dall’amicizia. La loro forza d’attrazione raggiunge oggi, a detta di tutti, livelli senza precedenti, ma è inversamente proporzionale alla capacità di svolgere il ruolo sperato e atteso, che era e resta la causa principale di quell’attrazione. E’ proprio perché siamo disponibili ad «amicizie e unioni profonde», proprio perché lo desideriamo più forte e disperatamente che mai, che i nostri rapporti sono pieni di rumore e furore, carichi di ansia e in perenne allerta.
Vorremmo la mano disponibile di una persona amica, affidabile, fedele, alla «finché-morte-non-ci-separi», che ci venga tesa sicuramente, prontamente e di buon grado in qualsiasi momento si renda necessaria, che sia come l’isola per il naufrago o l’oasi per chi si è perso nel deserto: sono queste le mani che ci occorrono, che vorremmo attorno a noi, tanto più numerose tanto meglio.
Eppure. Nel nostro ambiente liquido-moderno la fedeltà a vita è una grazia, inseparabile da varie disgrazie. Che fare se le onde cambiano direzione, se emergono nuove opportunità che trasformano i rassicuranti punti di forza di ieri nelle minacciose debolezze di oggi, gli averi che un tempo ci si teneva stretti in fastidiose zavorre, i giubbotti salvagente in cinture con i piombi?
«Dov’è il confine tra il diritto alla felicità personale e al nuovo amore e l’egoismo esasperato disposto a mandare in frantumi la famiglia, e magari a danneggiare i figli?», si chiede Ivan Klíma. Tracciare questo confine con precisione può essere doloroso, ma di una cosa possiamo esser certi: quel confine, ovunque sia, viene violato nel momento in cui l’atto di stringere e sciogliere legami tra gli uomini è dichiarato moralmente indifferente e neutro, sollevando a priori gli attori dalla responsabilità delle reciproche conseguenze di ciò che fanno: da quella stessa responsabilità incondizionata che l’amore promette, nella buona e nella cattiva sorte, e che lotta per costruire e conservare. «La creazione di una relazione buona e durevole», in netta opposizione alla ricerca di godimento attraverso oggetti di consumo, «richiede uno sforzo enorme».
Per farla breve: l’amore non è qualcosa che si possa trovare, non è un objet trouvé o un ready-made. E’ qualcosa che richiede di essere creato e ricreato ogni giorno, ogni ora; che ha bisogno di essere costantemente risuscitato e riaffermato e richiede attenzione e cure. In linea con la crescente fragilità dei legami umani, con l’impopolarità degli impegni a lungo termine, con l’eliminazione dei «doveri» dai «diritti» e l’elusione di ogni obbligo che non sia «verso se stessi» («me lo devo», «me lo merito», e via dicendo) si tende a vedere nell’amore qualcosa che è perfetto dall’inizio oppure è fallito, e che dunque è meglio abbandonare e sostituire con esemplari «nuovi e migliorati», si spera davvero perfetti. Un simile amore non sopravvivrà al primo piccolo litigio, e tanto meno al primo serio disaccordo e scontro.
La felicità - per richiamare la diagnosi di Kant - non è un’ideale della ragione, ma dell’immaginazione. E lo stesso Kant avvertì che dal legno storto dell’umanità non si sarebbe mai potuto ricavare nulla di dritto. John Stuart Mill parve riunire entrambe le nozioni in un avvertimento: chiediti se sei felice e cesserai di esserlo. Gli antichi probabilmente già lo sospettavano ma, guidati dal principio Dum spiro, spero - finché c’è vita, c’è speranza -, sostenevano che senza duro lavoro la vita non offrirebbe nulla che abbia valore. Duemila anni dopo, questo suggerimento non ha perso affatto la sua attualità.
© 2008, Zygmunt Bauman
© 2009, Laterza
Traduzione di Marco Cupellaro