Nell’ultimo libro di Tagliasco e Manzotti e in quello di Sini una riflessione sul libero arbitrio della tecnologia
Penso, quindi sono (un automa)
Dalle macchine del ’700 ai robot, l’artificiale è sempre più una protesi umana
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 16.06.2009)
Nel Giappone dei Tokugawa (1600-1867) erano di moda bambole che servivano il tè, puntigliosamente descritte nel manuale (1769) dell’artista Hosokawa. Pressoché contemporaneamente Giacomo Casanova passava di conquista in conquista fino a incontrare, a un ballo, la donna ideale. Sorpresa: è una dama meccanica, come si scopre quando, per un guasto, «lei» continua a danzare con una gamba tutta irrigidita. La tecnica ha sedotto il grande seduttore: almeno nella finzione cinematografica, poiché il tutto è un’invenzione di Federico Fellini ( Casanova, 1976). Ma è una buona trovata: nel Settecento dei Lumi, dei libertini e dei meccanismi meravigliosi e stupefacenti, Pierre Jacquet-Droz e suo figlio Henri avevano scolpito in legno un pupazzo alto ventotto pollici, dotato di congegni che gli permettevano di mettere su carta un certo numero di frasi. Memore, per così dire, di Cartesio l’Automa Scrivano se ne uscì con la battuta: «Non penso, dunque non sarò mai». Nel 1946 un meccanico dilettante, tal Weisendanger, riprendendo i piani dei fantasiosi artigiani di due secoli prima, riuscì a costruire una macchina in grado di scrivere a mano. Pare abbia commentato: «Credo che la gente troverebbe bizzarro che un uomo della nostra epoca dedichi tempo e fatica a un oggetto così futile».
Traggo queste notizie dallo splendido Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali redatto con curiosità e intelligenza da Vincenzo Tagliasco (bioingegnere dell’Università di Genova, scomparso l’anno scorso) per Mondadori un decennio fa. Cyborg, replicanti, robot, mutanti, dopo aver popolato le saghe di quella moderna mitologia che è la fantascienza, stanno entrando nella nostra esistenza quotidiana. Chissà se dobbiamo «ringraziare» più l’immaginazione letteraria di Mary Shelley o di E.T.A. Hoffmann che le astrazioni matematiche di Alan Turing, di Norbert Wiener o di John von Neumann?
Una storia della fantamatematica - sofisticate geometrie di computer e formule numeriche per calcolatrici potentissime - deve essere ancora scritta. Certo, un posto d’onore spetterà a René Descartes, ovvero Cartesio, non solo per la sua Geometria ma anche per il suo Metodo (1637). Filosofo e matematico, tormentato dal dubbio che il mondo fosse illusione, era sfiorato anche dal sospetto di non essere molto di più di un congegno meccanico, costruito «da un non so qual Genio Maligno». Unica scappatoia: se dubito, penso; e quindi: «Penso, dunque sono». La sua personale esperienza di creatura dubitante garantiva così a Cartesio di esistere. Anzi, Dio ci ha creato come sostanze pensanti; a nostra volta, noi possiamo creare delle macchine, perché operiamo nel più vasto dominio della materia. E il nostro corpo (il nostro cervello, i nostri occhi, le nostre mani) è materiale, macchina esso pure. Dagli orologi e dalle calcolatrici prodotti dagli artefici umani, però, ci distinguiamo perché possediamo il «pensiero indipendente », cioè «l’anima».
Apprezziamo allora l’ironia del piccolo Scrivano: le macchine «ci sono» e forse vivono e pensano per davvero. Almeno, a partire dal secolo scorso: sono capaci di autoalimentarsi e muoversi autonomamente (come le «tartarughe elettriche» di Gray Walter), di pianificare la generazione di altre macchine (gli automi capaci di autoriprodursi ideati da von Neumann), di eseguire ad altissima velocità una miriade di operazioni logiche e aritmetiche (i «dinosauri del calcolo», come li chiamava Reymond Queneau, cioè gli ingombranti calcolatori del Dopoguerra da cui si sono però evoluti i nostri agili calcolatori tascabili). Oggi ancora no, ma domani proveranno emozioni e sentimenti.
Eppure, «l’errore di Cartesio» continua ad affascinare: soprattutto i filosofi. Ho due libri sulla mia scrivania, appena usciti. Il primo è Hamletica, di Massimo Cacciari (Adelphi), di cui già si è detto sulle pagine del «Corriere». Massimo muove, in realtà, dai dubbi non di Cartesio, bensì di Amleto, il principe di Danimarca che sa a malapena di esistere «nel teatro del mondo», per farci capire come lo shakespeariano «Essere o non essere» vada inteso come «Agire o non agire». Dopotutto, è il pensiero indipendente che ci mostra che «essere significa fare»: il mondo è modellato da quell’intreccio di percezione, pensiero, azione e passione che costituisce l’esperienza di ciascuno dei suoi «attori». Sia che riescano a realizzare i loro piani o che (com’è il caso di Amleto) finiscano per «andare errando da naufragio a naufragio».
L’altro volume è di Carlo Sini, e s’intitola, guarda caso, L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri). E qui incontriamo la domanda: «Da dove viene la singolare fantasia di riprodurre artificialmente dei simulacri di vita? ». Non è che l’altra faccia, direi, dell’incubo cartesiano di essere una macchina pur illudendosi di possedere il libero arbitrio. Eppure, non solo le macchine ma tutte le protesi escogitate dall’uomo (dal bastone che noi o qualche primate possiamo usare per far cadere un pomo troppo alto sull’albero al più potente telescopio orbitante) aumentano il potere sull’ambiente; e protesi sono persino le parole, sia orali che scritte; dunque, protesi è anche la cultura. Fin dove arriva la tua anima? Pare «infinita fino alla più lontana stella, che puoi raggiungere coi tuoi occhi o con qualche telescopio», per dirla con lo Stephen Dedalus dell’Ulisse di Joyce.
Ma tale infinità è tensione, non possesso. Ogni osservazione può venire integrata o corretta, ogni teoria rivista o rovesciata, ogni apparato migliorato o superato da uno più potente. La nostra autonomia è sempre fisicamente circoscritta, relativa, parziale. Veramente autonomo sarebbe solo Dio. Pur muovendo da premesse differenti, Cacciari e Sini concordano che solo nell’Essere Supremo si realizza «identità di volontà e di potenza». Ma autonomia ha la stessa radice di automa: quel tipo di macchina che ha in sé il principio del suo movimento. Ci pensino bene creazionisti antidarwiniani e sostenitori del cosiddetto Disegno Intelligente: se avessero ragione, condannerebbero il loro Dio alla condizione inesorabile di automa perfetto!
Bando alle sottigliezze teologiche: mi piace concludere con un’immagine tratta dall’ultima fatica di Tagliasco (scritta, prima di lasciarci, insieme con Riccardo Manzotti: L’esperienza, pubblicata da Codice): l’arcobaleno che scorgiamo alla fine del temporale «non è come un ponte di pietra intorno al quale si può girare, né troveremo una pentola d’oro a una delle due estremità ». Pare muoversi insieme con il suo osservatore, e dunque aveva ragione Leonardo da Vinci: «L’arco non è nella pioggia né nell’occhio che lo vede». È in tutt’e due, a mostrarci che, nella realtà della vita, l’Io e il mondo sono ciascuno parte l’uno dell’altro.