La postmodernità secondo Bauman
L’ultimo saggio dello studioso polacco spiega in che modo possiamo affrontare un destino senza certezze
È finita per sempre la pretesa degli intellettuali di essere coloro che stabiliscono ciò che è falso e ciò che è vero
di Zygmunt Bauman
Anticipiamo un brano del libro di "Modernità e ambivalenza" pubblicato da Bollati Boringhieri e in uscita in questi giorni. *
Il crollo delle "grandi narrazioni" (come le definisce Lyotard) - il dissolversi della fede nelle corti d’appello sovraindividuali e sovracomunitarie - è stato visto con timore da molti osservatori, come un invito a una situazione del tipo "tutto va bene", alla permissività universale e dunque, alla fine, alla rinuncia a ogni ordine morale e sociale. Memori della massima di Dostoevskij «Se Dio non esiste, tutto è permesso», e dell’identificazione durkheimiana del comportamento asociale con l’indebolirsi del consenso collettivo, siamo giunti a credere che, a meno che un’autorità imponente e indiscussa - sacra o secolare, politica o filosofica - non incomba su ogni individuo, il futuro ci riserverà probabilmente anarchia e carneficina universale. Questa credenza ha efficacemente sostenuto la moderna determinazione a instaurare un ordine artificiale: un progetto che sospettava di ogni spontaneità finché non se ne provava l’innocenza; un progetto che metteva al bando tutto ciò che non era esplicitamente prescritto e identificava l’ambivalenza con il caos, con la "fine della civiltà" così come la conosciamo e potremmo immaginarla.
Forse la paura scaturiva dalla coscienza repressa che il progetto era condannato fin dal principio; forse era coltivata deliberatamente, dal momento che svolgeva l’utile ruolo di baluardo emotivo contro il dissenso; forse era solo un effetto collaterale, un ripensamento intellettuale nato dalla pratica sociopolitica della crociata culturale e dell’assimilazione forzata. In un modo o nell’altro, la modernità decisa a demolire ogni differenza non autorizzata e tutti i modelli di vita ribelli non poteva che concepire l’orrore per la deviazione e trasformare la deviazione in sinonimo di diversità. Come commentano Adorno e Horkheimer, la cicatrice intellettuale ed emotiva permanente lasciata dal progetto filosofico e dalla pratica politica della modernità è stata la paura del vuoto; e il vuoto era l’assenza di uno standard vincolante, inequivocabile e applicabile a livello universale.
Della popolare paura del vuoto, dell’ansia nata dall’assenza di istruzioni chiare che non lascino nulla alla straziante necessità della scelta, siamo informati dai racconti preoccupati degli intellettuali, interpreti designati o autodesignati dell’esperienza sociale. I narratori però non sono mai assenti dalla loro narrazione, ed è un compito disperato quello di provare a separare la loro presenza dalle loro storie. È possibile che in generale ci fosse una vita fuori dalla filosofia, e che questa vita non condividesse le preoccupazioni dei narratori; che se la passasse piuttosto bene anche senza essere disciplinata da standard di verità, bontà e bellezza provati razionalmente e approvati filosoficamente.
È possibile persino che molta di questa vita fosse vivibile, ordinata e morale proprio perché non era ritoccata, manipolata e corrotta dagli agenti autoproclamati della "necessità universale". Ma non c’è dubbio sul fatto che una particolare forma di vita non possa passarsela bene senza il sostegno di standard universalmente vincolanti e apoditticamente validi: si tratta della forma di vita dei narratori stessi (più precisamente, la forma di vita che contiene le storie narrate per gran parte della storia moderna).
È stata soprattutto quella forma di vita a perdere il suo fondamento una volta che i poteri sociali hanno abbandonato le loro ambizioni ecumeniche, e a sentirsi dunque minacciata più di chiunque altro dal dissolversi delle aspettative universalistiche. Finché i poteri moderni si sono aggrappati con risolutezza all’intenzione di costruire un ordine più efficace, guidato dalla ragione e dunque in definitiva universale, gli intellettuali non hanno avuto grande difficoltà ad articolare la loro rivendicazione a un ruolo cruciale nel processo: l’universalità era il loro dominio e il loro campo di specializzazione.
Finché i poteri moderni hanno insistito sull’eliminazione dell’ambivalenza come misura del miglioramento sociale, gli intellettuali hanno potuto considerare il loro lavoro - la promozione di una razionalità universalmente valida - come veicolo principale e forza trainante del progresso. Finché i poteri moderni hanno continuato a denigrare, mettere al bando e sfrattare l’Altro, il diverso, l’ambivalente, gli intellettuali hanno potuto contare su un massivo supporto alla loro autorità di giudicare e di distinguere il vero dal falso, la conoscenza dalla mera opinione.
Come il protagonista adolescente dell’Orfeo di Jean Cocteau, convinto che il sole non sorgesse senza la serenata della sua chitarra, gli intellettuali si sono convinti che il fato della moralità, della vita civile e dell’ordine sociale dipendesse dalla loro soluzione del problema dell’universalità: dalla loro capacità di fornire la prova decisiva e definitiva del fatto che il "dovere" umano sia inequivocabile, e che la sua inequivocabilità abbia fondamenti incrollabili e totalmente affidabili.
Questa convinzione si è tradotta in due credenze complementari: che non ci sarebbe stato niente di buono nel mondo, a meno che non ne fosse provata la necessità; e che provare questa necessità, se e quando ci si fosse riusciti, avrebbe avuto sul mondo un effetto simile a quello attribuito agli atti legislativi di un governante: avrebbe sostituito il caos con l’ordine e reso trasparente ciò che era opaco.
L’effetto più spettacolare e durevole dell’ultima battaglia della verità assoluta non è stato tanto la sua inconcludenza, derivante come direbbero alcuni dagli errori di progetto, ma la sua totale irrilevanza per il destino mondano di verità e bontà. Questo destino è stato deciso molto lontano dalle scrivanie dei filosofi, giù nel mondo della vita quotidiana dove infuriavano le lotte per la libertà politica e dove si spingevano avanti e si ricacciavano indietro i confini dell’ambizione statale di legiferare sull’ordine sociale, di definire, segregare, organizzare, costringere e reprimere.
* la Repubblica, 12 maggio 2010