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Dopo Copernico, l’uomo rotola dal centro verso la "X". Fine dell’"uomo teoretico": Web, Terra, e Mutamenti Antropologici.

PENSIERO LIQUIDO E CROLLO DELLA MENTE. Sulle nuove frontiere della riflessione estetica, un originale saggio di Gaetano Mirabella, scrittore e collaboratore del "McLuhan Program in culture and technology" di Toronto - a cura di Federico La Sala

Verso un sentire pensante. Il corpo nell’epoca della Transnaturalità elettronica.
giovedì 7 ottobre 2010 di Federico La Sala
[...] Il crollo della mente è un evento che non è stato percepito e adeguatamente segnalato forse a causa dell’eccessiva attenzione verso l’intelligenza artificiale e le neuroscienze [...] L’estetica tradizionale non riesce più a spiegare che cosa accade intorno a noi, e che cosa proviamo [...]
Festival internazionale della Filosofia in Sila: alcune foto - foto di Gaetano Mirabella, in fondo.
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"E se l’amore non fosse altro che una sofisticata, arcaica (...)

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> PENSIERO LIQUIDO E CROLLO DELLA MENTE. ---- L’EPICA E LA SUA ECLISSI PLEBEA (di Fulvio Papi)

giovedì 2 agosto 2012

AGORÀ

L’EPICA E LA SUA ECLISSI PLEBEA

di Fulvio Papi *

Un’epica nella tradizione classica è per lo più riconosciuta come identità culturale di un popolo.Una narrazione in cui ognuno, ascoltandola, riconosce i propri luoghi simbolici di origine, i personaggi che incarnano virtù arcaiche e tuttavia condivise, le scene salienti che diventano spettacoli interiori della memoria collettiva nel tempo, cioè una tradizione che continua a provocare scene esemplari nella propria vita pubblica e non solo.

Credo di aver evocato la famosa definizione di Havelock intorno ai poemi omerici come enciclopedia della tribù. Naturalmente è una enciclopedia che è soggetta a trasformazioni molto importanti poiché secondo la forma comunicativa che assume, dal canto dell’aedo alla tragedia classica, si configura secondo significati etici diversi. P

robabilmente, nell’ascolto orale, è la grande ammirata curiosità per quasi un vichiano “tempo degli eroi”; nella rappresentazione tragica l’acquisto di una dimensione sempre esemplare, ma più prossima al proprio giudizio come alla propria emozione - almeno Aristotele ci fa pensare così.

Quando poi l’epos diventa testo scritto stabile allora acquista la dimensione ideale della letteratura e quindi la distanza di una finzione che non ha più bisogno di appartenere a una storia mitizzata o immaginaria, ma assume quello statuto speciale che ha la grande letteratura come “mondo possibile” tutt’altro che privo di senso per la propria contemporaneità.

Dall’epos originario, senza voler improvvisare interpretazioni semplici e frettolose, deriva un genere letterario del quale l’Eneide è esempio che crea uno sfondo mitico a una storia politica in corso, un legame diretto tra la mitologia diffusa del passato e le vicende storiche del presente.

Quindi un’epica che trasforma, secondo una nuova sensibilità letteraria, i “topoi” più antichi, ne eredita anche gli stilemi, ma cita il suo significato etico. Questo per un verso, che, per l’altro, sono gli eroi ad assumere una propria tipicizzazione a diventare sia figure del pantheon ideale, sia personaggi che esemplarizzano, con le loro storiche trasformazioni, le forme della vita quotidiana.

Primo fra tutti Ulisse, il personaggio che ottenne il maggior numero di metamorfosi, che cominciarono tra il testo dell’Iliade e quello dell’Odissea per - come tutti sanno - giungere a una sua trasformazione nel nostro quotidiano nel celebre libro di Joyce. La trasformazione del racconto epico diviene la parodia epica di un giorno qualsiasi gettato nel nostro mondo dove, per cogliere un aspetto eclatante, il linguaggio dissolve, nelle sue fughe prammatiche, nell’intrico lessicale dei luoghi, qualsiasi memoria dello stile originario senza il quale ogni eroe diventa necessariamente figura di un altro tempo.

La letteratura corrode, distrugge, reinterpreta un personaggio mitico e, nella sua distruzione necessaria, infine ne rievoca l’origine. Non c’è altra origine, nel contemporaneo vissuto, che quella capace di mostrare la sua impossibilità.

È diverso il caso degli straordinari racconti della Bibbia che la tradizione religiosa, da Agostino in poi, reinterpreta nella storia della rivelazione cristiana. E tuttavia, almeno da Spinoza in poi, possono essere considerati come elementi fondamentali dell’epica del popolo ebraico, una serie di vicende ciascuna delle quali, diversamente da un’epica che diventa tessuto della trasfigurazione letteraria, mantiene la sua potenza etica, sapienzale, religiosa.

Di un’epica, e di quei testi o tradizioni che noi chiamiamo epica, esistono necessariamente custodi sociali, interpreti, esegeti, spesso in gara o in polemica tra loro, e sono quelli che la tramandano, sino a quando intervenga una sapienza scientifica che riconduce un testo alla sua verità mondana o, che è una filologia del tutto differente, al suo valore religioso.

Nel caso greco il testo che noi possediamo ci narra della tradizione degli aedi come narratori, il celebre Demodoco, ma lo stesso Ulisse, autobiografico alla reggia dei Feaci, diventa una figura di aedo. Ogni grande epica ha una propria storia complessa alla quale deve le sue trasformazioni di senso nelle diverse congiunture culturali.

Tutti sanno che nella musica di Wagner prese nuova forma drammatica una grande eredità epica. Anche se fu proprio il giovane Nietzsche a sostenere che era la musica wagneriana a vivificare il senso dell’epos e non era la tradizione epica ad essere “messa in musica”. Era per Nietzsche lo stesso ragionamento per cui l’origine dionisiaca della tragedia greca era rappresentata dal coro.

Un’epica, in ogni caso, implica un patrimonio narrativo, un mondo storico che vi si riconosca e un vettore che lo ricordi, lo attualizzi e lo diffonda e ne crei l’aspettativa sociale. Il teatro greco, come tutti sanno, porta sulla scena come patrimonio educativo della città la tradizione e i temi dell’epica. La medesima funzione è svolta dal teatro wagneriano. Così che ogni epica ha il suo patrimonio di eroi che, nella loro individualità, sintetizzano sempre valori che sono condivisi nell’ethos nel quale si diffonde e rinasce un tesoro epico.

Questa considerazione è in sintonia con la tesi di Hegel nella Fenomenologia secondo cui l’eroe non fa che interpretare al livello supremo, e con sacrificio personale, quello che è un sentimento, un desiderio o un dovere diffuso nella comunità di appartenenza.

L’idea del proprio sacrificio volontario come prezzo dell’azione eroica è probabilmente un topos spirituale di origine cristiana. Il sacrificio scompare lasciando il posto al modello etico e politico nella trasformazione del romanzo, secondo i canoni degli anni Trenta, del realismo socialista, in un’epica burocratica che deve affermare i valori del potere politico, così come avveniva nell’URSS staliniana. Un’epica sociale a comando che, in qualche rara circostanza, quando lo scrittore era impegnato con il suo talento e la sua immaginazione, poteva dare anche risultati letterariamente accettabili.

Ma non è certamente un caso il fatto che l’ultimo disegno epico, nella società con cui abbiamo una vera familiarità, appartenga a una poetica politica, sostenuta e valutata da un potere autoritario. Poiché, se proviamo a proiettare la domanda intorno alla presenza epica nella nostra epoca, possiamo ritrovare aspetti della tradizione che in qualche modo è stata rievocata? O, per estendere lo sguardo e rievocare un’altra grande tradizione, quella della Chanson de Roland, esistono ancora elementi di quel nucleo epico-poetico nel nostro mondo?

Il fatto è che la poesia epica non esiste più già con l’affermazione, in Italia, della grande poesia di Dante e Petrarca: esistono nella Commedia e nel De Africa personaggi di primo piano, gli uni valorizzati dalla esperienza della vita comune, gli altri tipicizzati secondo la tradizione classica delle figure esemplari.

L’epica si trasferisce dalla grande letteratura alla narrazione storica che valorizza i processi di unità nazionale e, in questo senso, è un’epica che falsifica i dati storici reali per costruire una credenza epica intorno ai personaggi rilevanti nell’ambito della storia nazionale. È dunque intorno all’unità politica della nazione che si sviluppa un narrare epico il quale vuole costruire essenzialmente la cultura identitaria e partecipazionale dei cittadini.

Basti pensare alle narrazioni storico-scolastiche tipiche dell’educazione storica americana cui, per molti anni, ha fatto eco una tradizione filmica. E chiunque conosca anche di profilo la storia della scuola italiana, sa che il periodo risorgimentale e le sue figure salienti erano diventati occasioni per narrazioni scolastiche dove era rintracciabile una forma di epos storico della nazione.

Ora questa dimensione è venuta in gran parte meno e non perché si sia diffuso un più maturo giudizio storico, ma perché nell’immaginazione collettiva il vettore epico non è più stato l’epopea storica della nazione, ma l’apparire di figure, eroi senza storia, che appartengono all’affermarsi di quello che già Debord analizzava negli anni Sessanta come la società dello spettacolo.

Non c’è più alcuna epica che si tramanda e il racconto nel quale avviene l’apparizione dell’eroe non ha la caratteristica della lunga durata. L’eroe, come tutti gli oggetti nel nostro mondo, è dato al consumo, e tuttavia la sua figura tende ad emergere come individualità mitica al di là delle narrazioni, all’origine filmiche, dove compare nella contingenza di storie differenti e prive di qualsiasi continuità.

Il racconto può essere dimenticato, ma il personaggio rimane nell’immaginaria ricordanza collettiva. È il fenomeno che si manifestò in una maniera eclatante soprattutto nel primo periodo della storia del cinema, e per comprendere l’epica del nostro tempo è necessario guardare agli eroi che appaiono nel nostro orizzonte. Essi sono privi di un racconto mitico che li contestualizzi, nel pubblico comprendere sono immagini delle quali è un grande spettacolo scoprire gli elementi biografici.

Nell’autobiografia il pubblico scopre che la storia dell’eroe ha aspetti di somiglianza con la propria, e questa curiosità rende l’eroe più prossimo alla propria esperienza, forte del suo potere di immagine, ma, in realtà, privo di una storia che travalichi i limiti della esperienza possibile se pure, come accade - ed è sempre accaduto - nel mondo delle stars, enfatizzata oltre misura. Questo è il caso tipico della nostra contemporaneità dello spettacolo che tuttavia corrisponde a un contesto di più antica data, dove il rapporto tra l’eroe e il suo spazio sociale e narrativo è dato dal “proprio tempo”.

L’eroe è l’eroe del proprio tempo, la narrazione corrisponde all’oggettività temporale, è uno schema che si ripete da Lermontov sino ai primi anni Cinquanta del nostro Pratolini. Ma in questi casi, anche se il contesto epico è il tempo storico, il vettore resta la scoperta narrativa. C’è quindi una differenza fondamentale con gli eroi del “nostro tempo” che sono sempre personaggi dello spettacolo, siano essi attori nel senso classico della parola o sportivi, o uomini politici, i quali hanno compreso che più che lo studio e l’intelligere, conta la visibilità intorno alla quale creare consenso.

Ma quello che può essere ancora più interessante è che l’eroe dello spettacolo epico, come ogni altro oggetto è sul mercato e ha un suo prezzo d’acquisto. Poiché non è mai vero che il tale atleta “non è cedibile” come talora si dice. Il problema è l’incremento del prezzo, se, per ipotesi, esso potesse salire di cinque volte, chiunque diventa cedibile. A questo punto la manovra è quella di comperare sul mercato il personaggio che è in grado di fortificare l’epos pubblico che accompagna ogni squadra sportiva. Non è la patria, il territorio, l’origine, la condivisione epica a formare il personaggio dell’epos popolare, ma esso appartiene già a un alone epico, e si tratta solo, attraverso una operazione commerciale, di trasferire il personaggio in un altro luogo. La sua funzione epica resta eguale ma è il pubblico della sua fruizione che è differente.

Potenzialmente re Mida può comperare tutte le possibilità di epicizzazione immaginaria della nostra epoca, anche se non bisogna dimenticare che il pubblico trascrive l’eroe nel suo racconto in quanto esso è impegnato in una “guerra”, qual è la metafora nata negli anni Sessanta e relativa al gioco del calcio.

In ogni caso Priamo, re di Troia, non è in grado di comperare alcun eroe acheo, ma solo il cadavere del proprio figlio ucciso dall’eroe avverso. Ogni eroe ha il suo luogo, né può esserlo fuori da questa relazione, l’eroe dello spettacolo sportivo contemporaneo assomiglia a quel “non luogo” di cui parla Augé per mostrare l’eguaglianza spaziale del nostro vivere sociale.

Si può aggiungere, per quanto riguarda lo spettacolo propriamente detto - quindi non la spettacolarizzazione dell’esistenza sociale - che già negli anni Trenta e Quaranta era fortissimo il fenomeno delle stars cinematografiche. E se Plutarco era il modello etico-comportamentale di personaggi immensi e difficili come Rousseau e Foscolo, l’attrice bizzarra e capricciosa, che in queste caratteristiche faceva consistere la “virtus” femminile, fu il modello comportamentale di molte banali piccolo borghesi degli stessi anni.

Con la mutazione dei mezzi di comunicazione e con la diffusione dello spettacolo ininterrotto, il cinema ha perduto la sua vis mimetica. L’epica avviene anche in assenza di “intrigo”, dato che è lo spettacolo stesso o la proliferazione di simulacri, alla Baudrillard, a sostituire, con la forza dell’immagine, la narrazione medesima.

L’apparizione quotidiana è l’epos quotidiano, ma è anche necessariamente un epos che ha sue leggi immanenti. Questa situazione infatti richiede contemporaneamente due condizioni. L’una che un eroe pubblico rimanga tale per un periodo sufficiente a creare il processo di “eroicizzazione”, ma, nel contempo, occorre che vi sia un certo consumo di eroi, e quindi una serie di spezzati frammenti epici poiché è il nuovo che mantiene aperto l’interesse in relazione con il ciclo della abitudine.

Inoltre il genere epico che richiede il vettore della scrittura e del testo è del tutto scomparso, se si fa eccezione per qualche rara composizione poetica che ne assume lo stile. E questo accade perché l’epica richiede un riconoscimento partecipativo che è del tutto impossibile nel tempo di un individualismo esasperato, non esistono modelli che abbiano una loro universalità etica e quindi richiedono una certa trascendenza del se stesso per una imitazione riuscita. Noi pensiamo che il fenomeno sia piuttosto recente, ma non vorrei ignorare che anche Goethe nel Faust ricorda la partenza degli dèi dal nostro mondo.

Sappiamo che oggi l’ammirazione sociale, simile a quella della plebe romana per i gladiatori, va ad icone sociali nelle quali il pubblico legge il desiderio che è nel profondo della propria identità. La partecipazione epica rinasce sfigurata nelle urla degli stadi di calcio, nella violenza insensata che, in realtà (a dispetto delle chiacchiere degli addetti ai lavori per lo più intellettualmente sprovveduti) costituisce la realizzazione della metafora della guerra che è presente nel gioco medesimo, e che solo una consuetudine alla educazione riesce a neutralizzare. Ma in alcune condizioni sociali, spesso riprodotte, il germe della violenza è difficilmente contenibile. Di queste situazioni la parodia, per fortuna inoffensiva, si ha quando il desiderio di violenza è circoscritto nella solitudine dinnanzi al video. In questo caso la cellula impazzita dell’epos è ridotta a un cortocircuito della propria immaginazione.

* TESTO RIPRESO DAL SITO DELLA RIVISTA "ODISSEA", DIRETTA DA ANGELO GACCIONE


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