L’Aquila sfregiata
di ARRIGO LEVI (La Stampa, 8/4/2009)
Di fronte a un disastro umano e materiale come il terremoto dell’Aquila, che sembra non dover finire mai, mentre ancora si scava nella speranza di trovare un sopravvissuto, può sembrare fuori luogo ricordare che il capoluogo d’Abruzzo è una tra le più preziose città d’arte d’Italia. Non ci sono più case dove vivere, non più luoghi di lavoro, non più quegli oggetti cari che raccogliamo nel corso degli anni. Non più scuole, e non più il nuovo ospedale che avrebbe dovuto resistere a qualsiasi scossa sismica. In tutti i luoghi colpiti da un terremoto disastroso, queste sono le esigenze primarie che vanno affrontate.
Ma all’Aquila, ad esse si aggiunge un altro compito, che richiederà un immenso impegno: restaurare, e rimettere in sicurezza, quelle grandi bellissime chiese che attiravano migliaia e migliaia di visitatori, e che erano l’anima della città: le scosse di ieri sera hanno fatto crollare la cupola della Basilica delle Anime Sante in Piazza Duomo, aprendo un’altra tremenda ferita al suo volto.
Capisco Bruno Vespa, aquilano, quando nel suo esemplare servizio televisivo ha voluto provocare i banchieri senesi, invitandoli, con successo (e chi avrebbe potuto dirgli di no, dinanzi a tutt’Italia), ad assumersi l’onere finanziario (ingente), necessario per la ricostruzione della straordinaria basilica dedicata a San Bernardino da Siena. Magari questo verrà dopo, prima pensiamo alle esigenze più immediate. Ma un aquilano, o anche un abruzzese d’adozione come sono almeno in parte io, non può non sognare che alla città mirabile sia restituito il suo vero volto.
Nel corso dei decenni, mi è capitato di «coprire» di persona, come giornalista, due terremoti (quello del Belice, e quello di Skopje, in Jugoslavia); ma anche di visitare luoghi (dal Friuli a Potenza), dove un terremoto, l’ingente mobilitazione di risorse per «riparare i danni» (come si impegnarono ogni volta il cuore e la generosità dei piemontesi, stimolati dal nostro «Specchio dei tempi»!) e la volontà di riscatto degli abitanti si rivelarono il punto di partenza di una straordinaria rinascita civile ed economica.
Perché questo accada, occorre che i cittadini trovino proprio nella loro disperazione la molla per impegnarsi con tutte le loro forze nella ricostruzione. E naturalmente occorre una notevole misura di «buongoverno», a livello nazionale e locale.
Nel corso di alcuni decenni, ho imparato a conoscere bene le virtù della gente d’Abruzzo. È un fatto che la cultura abruzzese è, per sua natura profonda, una cultura della solidarietà. Questa è la sola regione d’Italia dove tutti si diano del tu, indipendentemente dalla condizione sociale o dal grado di amicizia, e dove agli stretti legami famigliari si aggiungano quelli di carattere religioso: chi non ha un «compare» pronto a soccorrerti nell’ora del bisogno?
Non sono soltanto formali o rituali le tante lodi del forte carattere degli Abruzzesi che abbiamo letto o ascoltato in questi giorni. E poi, non si deve assolutamente dimenticare che l’Abruzzo è una regione che già da parecchi anni è uscita dal novero dei territori «sottosviluppati» d’Italia e d’Europa, ed ha iniziato un forte processo di ammodernamento e di crescita economica, favorito dagli aiuti «comunitari» ma con solide radici locali.
Per tutte queste ragioni, e anche per la prontezza della risposta degli organismi pubblici, e per l’insolito spirito di collaborazione fra gli uomini politici di parti diverse, io penso con fiducia, anche se con l’angoscia nel cuore, al domani della nobile città che è il vero cuore d’Abruzzo, e di quella corona di piccoli paesi che le stavano attorno, che oggi sono soltanto polvere, con le loro chiesette e i loro palazzetti municipali da rimettere in piedi.
Abbiamo ascoltato in questi giorni alcune grida disperate: non ci resta più niente, non lasciateci soli! Cari abruzzesi, ho fiducia che le promesse solenni che vi sono state fatte in questi giorni da chi governa e da chi rappresenta tutti gli italiani saranno onorate. E ho tanta fiducia nella forza d’animo e nelle virtù della gente d’Abruzzo