Quando il voto viene dopo il tiggì
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 13.06.2009)
Il potere ha bisogno della televisione, perché essa è un potere
da "L’anomalia" di Manlio Cammarata - Iacobelli, 2009, p. 14.
Questa volta è il Censis, il Centro studi investimenti sociali presieduto da Giuseppe De Rita, a dirlo con la forza delle cifre: durante l’ultima campagna per le europee e le amministrative, il 69,3 per cento degli elettori s’è formato la propria opinione attraverso i notiziari dei telegiornali. E il dato, già impressionante di per sé, sale ulteriormente fra i meno istruiti (76%), i pensionati (78,7) e le casalinghe (74,1). Al secondo posto, troviamo i programmi di approfondimento giornalistico della stessa televisione (30,6). Segue la carta stampata che è stata determinante per il 25,4 per cento degli elettori e quindi Internet con appena il 2,3.
Altro che "calunnie", "congiura dei giornali di sinistra", "complotto internazionale" e via discorrendo, come proclamano il presidente del Consiglio e i suoi seguaci. Qui, ancora una volta, è la tv che condiziona pesantemente il voto degli italiani. Come accade ormai da quindici anni a questa parte: dalla fatidica discesa in campo del Cavaliere sulle onde dell’etere, un bene pubblico che appartiene allo Stato e quindi a tutti noi, anche a quelli che non votano per il centrodestra.
È l’effetto di un’occupazione selvaggia - non ci stancheremo mai di ripeterlo - iniziata a metà degli anni Ottanta e proseguita fino ai giorni nostri, con l’acquiescenza o la complicità di un’opposizione remissiva, buonista o addirittura compromissoria. A cui poi s’è aggiunto, dal ‘94, un conflitto d’interessi senza uguali al mondo, con lo strapotere mediatico di un capo di governo che controlla direttamente tre reti private e indirettamente tre reti pubbliche.
E pensare che c’è ancora chi si ostina a dissimulare l’anomalia televisiva italiana, come fanno l’ex senatore del centrosinistra Franco Debenedetti e l’ex componente dell’Autorità sulle comunicazioni Antonio Pilati, trasferito poi all’Antitrust per meriti acquisiti sul campo, in un libro pubblicato dalla stessa casa editrice che appartiene al gruppo Berlusconi e che recentemente ha rifiutato un saggio del premio Nobel, José Saramago, perché conteneva accuse e giudizi critici sul Cavaliere. È vero che il marchio storico dell’Einaudi è lo struzzo. Ma i due co-autori fanno peggio che nascondere la testa sotto la sabbia, quando confondono la concentrazione televisiva e pubblicitaria con il conflitto d’interessi, trascurando lo status di concessionario pubblico del nostro premier-tycoon; oppure estrapolano la tv dal contesto del sistema dell’informazione, ignorando gli effetti su tutti gli altri media e in particolare sulla carta stampata; o ancora, invocano la privatizzazione della Rai come l’unica soluzione per affrancarla dalla sudditanza alla partitocrazia, quasi che in Gran Bretagna non esistesse la Bbc o un servizio pubblico più che decente in altri Paesi europei.
Ai cultori della materia, si può consigliare piuttosto il saggio rigoroso e ben documentato di Manlio Cammarata, citato all’inizio di questa rubrica. Dal caso di Rete 4 a quello di Europa 7, l’autore ricostruisce puntualmente "il monopolio del potere da Mussolini al digitale terrestre", sulla base degli atti parlamentari e delle sentenze, italiane ed europee. La provocatoria conclusione propone di modificare così l’articolo 1 della Costituzione: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla televisione. La sovranità appartiene a chi possiede la televisione, e la esercita come gli pare". Ma forse quell’aggettivo "democratica" ormai è di troppo.
Aspettiamo adesso le prossime nomine alla guida dei telegiornali Rai, dopo quella di Augusto Minzolini al Tg Uno. E vedremo fino a che punto si avvererà la "profezia di palazzo Grazioli", per verificare l’autonomia e l’indipendenza del nuovo Cda di viale Mazzini. Ma la verità è che al fondo resta da risolvere un problema di "governance", cioè di assetto e struttura dell’azienda, per sottrarre finalmente la tv di Stato al dominio dell’esecutivo, quale che sia.
Se settanta o più cittadini su cento vanno alle urne sotto l’effetto ipnotico della televisione, secondo l’indagine del Censis, non c’è poi da meravigliarsi più di tanto che il voto venga "dopo il tiggì" - come cantava ai suoi tempi Renzo Arbore - né tantomeno che il governo si preoccupi di insediare direttori di sua completa fiducia. Il potere si fonda sul controllo della tv. E quando uno prova ad avvertire nello studio di Porta a porta che il centrodestra governa con il "consenso esplicito" di appena il 35 per cento degli elettori, segnalando una questione fondamentale di rappresentanza e di democrazia che non mette in discussione la legittimità dell’esecutivo in carica, il ringhioso sottosegretario Castelli insorge e brandisce come una clava il suo 10,2 per cento per imporre le ragioni della Lega Nord a quelle del Sud e di tutto il resto del Paese.
Certo, anche in America il presidente Obama è stato eletto con un 34 per cento di astensioni. Ma, a parte le diverse tradizioni al di qua e al di là dell’Atlantico, il fatto è che nelle nostre ultime politiche, ai 10 milioni 892 mila di astenuti più 1 milione 629 mila di schede bianche o nulle, si sono aggiunti 3 milioni 692 mila voti validi ma "inutili", cioè dispersi, per effetto di quella "porcata" della legge elettorale che porta il nome del leghista Calderoli: un totale di non rappresentati pari a 16 milioni 215 mila persone. E ha ragione il segretario del Pd, Dario Franceschini, a consolarsi oggi per il fatto che il centrodestra esce in minoranza dalle europee, con il 45,3 per cento dei voti contro il 49,5 delle opposizioni più gli "altri" minori, sebbene questo fosse vero già da prima.
Sono sicuri, allora, i signori del governo di poter governare davvero un Paese così complesso, in un momento tanto delicato e difficile, con un "consenso esplicito" che equivale a un terzo della popolazione? E il dissenso implicito, quello di tutti coloro che non votano per il centrodestra, dove lo mettiamo e che cosa ne facciamo? Ma, soprattutto, i leader del centrodestra sono proprio sicuri di avere un tale consenso anche senza l’appoggio determinante della televisione e dei telegiornali? Basterebbe magari risolvere il conflitto d’interessi in capo a Berlusconi e togliere le mani dalla Rai, per avere infine una controprova.