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PLATONE: ILLUMINISTA O TOTALITARIO?! Al di là dell’illuminismo e del platonismo per il popolo

PLATONE E NOI, OGGI. Una nota di Federico La Sala, seguita da un’intervista a Mario Vegetti di Antonio Gnoli e la risposta di Dario Antiseri.

mercoledì 6 maggio 2009
[...] il discendente di Codro e di Solone afferra
l’anima dell’Agorà, le regole (le categorie) dello scambio
e del dialogo, della discussione delle opinioni e
dell’esame delle merci, le forme-valori dei pensieri (idee)
e delle merci (valori di scambio) e la loro Misura,
la Forma-Valore del Bene-Denaro (l’equivalente generale),
e li riporta in cielo, sull’Acropoli, nelle mani del
Dio degli dei e delle dee: la bilancia è nelle mani del retto
filosofo, re e papa, che sa indicare con senno (...)

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> PLATONE E NOI, OGGI. --- L’antipolitico vive ancora nell’«incantamento» dell’età di Crono, si illude che i cittadini possano ancora essere «gregge divino» (di Umberto Curi - Macché antipolitica, è iperpolitica).

domenica 13 gennaio 2013

Macché antipolitica, è iperpolitica

di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 13.1.2013)

Dietro le polemiche più furibonde rivolte contro i partiti e le istituzioni rappresentative c’è la pretesa assolutamente irrealistica che lo Stato possa risolvere qualsiasi problema P iaccia o meno, è destinata ad essere una protagonista - se non la dominatrice assoluta - dell’imminente campagna elettorale, come già lo è stata nel recente scorcio della vita nazionale.

Detestata o invocata, criticata o esaltata, per riconoscimento unanime l’antipolitica è il nuovo soggetto che sta rubando la scena alle altre maschere della rappresentazione che celebra il suo rito supremo con le elezioni. Ma alla indiscussa centralità del fenomeno non corrisponde affatto una comprensione adeguata di quale ne sia la vera «natura», né di ciò che di essa è a fondamento, dal punto di vista storico e concettuale.

L’equivoco principale scaturisce da quella preposizione, «anti», che suggerisce un’idea totalmente fuorviante, tale per cui essa tenderebbe a negare frontalmente la politica. Mentre un’analisi meno superficiale può far emergere un dato sorprendente, e cioè che ciò con cui abbiamo a che fare non è la negazione, ma al contrario una variante iperpolitica della politica.

Nel libro IX dell’Odissea Omero riferisce un episodio singolare. La nave di Ulisse ha raggiunto un’isola solitaria e sconosciuta. Come è consuetudine, viene inviata a terra una piccola delegazione di uomini, per ottenere informazioni sugli abitanti dell’isola. Passano le ore, ma dei compagni mandati in ricognizione non si ha notizia. Verranno ritrovati - illesi - qualche ora più tardi. A differenza di ciò che si temeva, gli abitanti dell’isola non li avevano accolti in maniera ostile. Al contrario, avevano condiviso il loro alimento abituale, i frutti del loto. «Ed essi - racconta Omero - non volevano più ritornare, e volevano invece restare là, insieme ai Lotofagi, a mangiare loto, dimenticando il ritorno».

Nóstou lathéstai, «dimenticare il ritorno»: questo il pericolo più insidioso, fra le molte avversità affrontate da Ulisse e dai suoi compagni. Lo stesso pericolo, citando precisamente questo passo omerico, è indicato da Platone quale principio di degenerazione dell’individuo, nel passaggio dall’uomo oligarchico all’uomo democratico.

All’origine del processo di degrado, il cui esito più compiuto sarà l’instaurazione della tirannide, vi è una «dimenticanza», non meno esiziale di quella che ha minacciato i compagni di Ulisse. Come costoro, scampati miracolosamente a mille disavventure, rischiano di vedere vanificato il progetto del ritorno in patria per una semplice «dimenticanza», allo stesso modo da una «dimenticanza» trae origine la degenerazione degli individui, e dunque anche degli Stati.

In un altro contesto, Platone spiegherà più chiaramente quale sia il contenuto di un oblio così decisivo. Ciò che siamo irresistibilmente portati a di-menticare (letteralmente: a far «cadere dalla mente»), è quale sia la fonte da cui scaturisce la politica, e quindi anche quale ne sia il fondamento. La politica è un phármakon, e cioè - per rispettare rigorosamente l’irresolubile ambivalenza del termine greco - una medicina che intossica, un veleno che guarisce. Non è dunque, per restare non occasionalmente nel lessico farmacologico, una panacea, un toccasana capace di sanare ogni malattia, senza dar luogo ad alcun fenomeno collaterale. Si tratta, invece, di un rimedio limitato e imperfetto, necessario per fronteggiare la malattia dello Stato, ma al tempo stesso del tutto incapace di garantire una compiuta guarigione.

Ciò che troppo spesso siamo portati a dimenticare - scrive Platone nel dialogo intitolato Politico - è che il mondo in cui attualmente viviamo è un mondo che gira alla rovescia, nel quale tutti i processi fisici, cosmologici e biologici si muovono in senso contrario, rispetto alla direzione originaria. Un mondo, soprattutto, che è caratterizzato dal fatto che Dio ha abbandonato la barra del timone, e perciò non ci conduce più al pascolo, orientando la vita dell’intera comunità. Non siamo dunque più «gregge divino», ma dobbiamo piuttosto «badare a noi stessi», senza più poterci affidare alla guida della divinità.

Nella situazione di abbandono, e dunque di massima incertezza, nella quale attualmente ci siamo venuti a trovare, ci sono stati elargiti alcuni doni - primi fra tutti la tecnica e la politica - mediante i quali cercare di guadagnarci la nostra sopravvivenza. Pur essendo, fra tutte le technai, quella regia, fin dalla sua genesi la politica è solo questo: una medicina che intossica, un rimedio inevitabilmente parziale, un tentativo per compensare l’abbandono da parte di Dio.

Tutto ciò è altresì confermato dall’analisi platonica dello Stato. Illusorio sarebbe immaginare che uno Stato possa dirsi «sano» dopo la «grande catastrofe» che ha invertito il senso di tutti processi biologici e astronomici. Quale che ne sia la forma di governo, è inevitabile che quello in cui viviamo sia uno Stato «rigonfio» e dunque «ammalato». Ed è altresì inevitabile che, assecondando l’impulso che è all’origine dello Stato, compaia nell’orizzonte storico qualcosa che in precedenza era sconosciuto, e che invece da quella fase in poi accompagnerà il genere umano.

Nel passaggio dalla condizione di originaria «salute» dello Stato alla situazione attuale, sulla spinta di una «sconfinata brama di ricchezza», diventerà necessario «fare la guerra». Ancora una volta, il «realista» Platone, intercetta il meccanismo che è storicamente e concettualmente alla base della guerra, senza alcun affidamento esigenziale: «facciamo pure a meno di dire se la guerra sia fonte di male o di bene. Contentiamoci di dire che ne abbiamo scoperto la genesi» (Repubblica, II, 373, d-e).

Da tutto ciò dovrebbe risultare con evidenza che utopistica non è affatto la rappresentazione platonica dello Stato, come per negligenza o conformismo si continua acriticamente a ripetere. Utopistico sarebbe, al contrario, credere che l’uomo possa da sé procurarsi uno Stato nel quale dominino la «pace» (eiréne), il «rispetto reciproco» (aidós), una «buona legislazione» (eunomía) e la «giustizia non invidiosa» (aphtonía díkes), vale a dire ciò che solo la guida del «pastore del mondo» poteva assicurarci. Per la stessa ragione per la quale sarebbe stolto affidare alle capre il governo delle capre, «nessuna natura d’uomo è capace di governare tutte le cose umane con potere assoluto senza riempirsi di tracotanza e di ingiustizia» (Leggi, IV, 713 c-d).

In un contesto e con motivazioni differenti, Thomas Hobbes ribadirà a suo modo l’assunto platonico. Non vi è proprio nulla di «naturale», né ancor meno di «divino», nella politica. Ad essa ricorriamo solo perché ne siamo costretti dalla paura, perché tramite essa vogliamo sottrarci al rischio incombente di subire violenza, preservando la nostra incolumità. Il contratto fra lo Stato e i cittadini non scaturisce da una opzione positiva e non corrisponde ad alcuna prospettiva salvifica. È fondato piuttosto sul realistico riconoscimento che l’unica alternativa alla politica è la guerra, anzi: il bellum omnium contra omnes.

Ecco, dunque, ciò che non si deve «dimenticare», se si vuole evitare di fare la fine degli incauti compagni di Ulisse. Che siamo così lontani dal vivere in un mondo «bene ordinato», da poter perfino affermare di trovarci piuttosto in un mondo in cui tutto gira alla rovescia. Che quella creazione interamente artificiale che è lo Stato riproduce - né potrebbe essere diversamente - tutti i limiti degli uomini che di esso sono artefici, al punto da non poter essere concepito se non come organismo affetto da malattie mai definitivamente estirpabili. Che nella genesi stessa dello Stato è materialmente scritto lo sbocco bellico, come necessità insita nella sua stessa «natura». Che la politica, soprattutto, può agire soltanto come phármakon, come un rimedio imperfetto, come un beneficio che arreca nuove sofferenze.

La radice vera dell’antipolitica, nelle sue formulazioni meno becere, sta tutta in questa «dimenticanza». Consiste nel pretendere che la politica funzioni come rimedio «assoluto», come farmaco senza effetti tossici. L’antipolitico vive ancora nell’«incantamento» dell’età di Crono, si illude che i cittadini possano ancora essere «gregge divino». Esige che la politica sia ciò che non può essere, una panacea, anziché un phármakon. Si sente tradito perché la politica non è accompagnata dalla «buona legislazione» e dal «rispetto reciproco», e ancor meno dalla «pace» e dalla «giustizia». Appassionato amante deluso dal suo amato, l’antipolitico rimprovera alla politica di non corrispondere all’immagine che aveva ingenuamente vagheggiato. E vorrebbe starsene là, su quell’isola, con i Lotofagi, a mangiare loto, dimenticando il ritorno.


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