Eredità culturali
Perché non possiamo non dirci antichi greci
di Carlo Carena (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.09.2018)
Perché non possiamo non dirci cristiani titolava nel ’42 un breve saggio, ma clamoroso, Benedetto Croce, pur senza abiurare il suo laicismo. Lì constatava e argomentava che in ogni caso quella del cristianesimo fu una rivoluzione di tale portata, da aver inciso in modo determinante nell’ideologia, nella morale e nella società per tutti i secoli successivi.
Giuseppe Zanetto in Siamo tutti greci dimostra a sua volta quanto grande sia l’incidenza e l’eredità dell’antica civiltà greca in molti aspetti della nostra vita, del nostro pensiero, della nostra arte, dei nostri comportamenti e nell’organizzazione della nostra società. A volte, anzi spesso siamo greci senza avvederci e senza saperlo, quando parliamo, quando leggiamo, quando cerchiamo un panorama (pan-órama, “vista totale”) o contempliamo un’opera d’arte, quando votiamo, quando ammiriamo una donna e andiamo dal medico.
Il titolo deriva anche qui da una celebre frase di Shelley in pieno romanticismo, nella prefazione al poema drammatico Hellas, ultima sua opera: We are all Greeks. Né Zanetto si ferma lì, ma esplicita e svolge nel suo libro quant’altro poi specifica il poeta romantico: «... perché le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Essi ci governano ancora dal loro lontano passato».
La nostra lingua e il nostro atteggiamento intellettuale, problematico, appartengono a quel popolo a cui il vocabolo stesso di “problema” appartiene, come “porsi davanti a qualcosa per osservarlo attentamente e capirlo a fondo”.
Siamo greci quando facciamo politica (pólis, “città”) perché essi pensarono e misero in atto l’idea che per prendere una decisione importante per molti, per tutti, il modo migliore è riunirsi tutti quanti, discuterne, poi votare le varie proposte e infine adottare il parere della maggioranza dei cittadini. Aristofane immaginò persino il voto concesso alle donne e i loro comizi elettorali, e il conferimento, non poi così buffo e chimerico, del potere ad esse; nonché l’introduzione della comunione dei beni: così lo Stato sarà ben governato, e così tutti avranno di che mangiare a sazietà.
Accanto all’assemblea, l’ecclesía, sta un consiglio operativo di cinquecento membri estratti a sorte e in carica per un anno, la boulé, una specie di ministero degli interni; inoltre dieci strateghi eletti dall’assemblea comandano l’esercito, e pubblici ufficiali sorvegliano le attività commerciali e controllano la qualità delle merci, la correttezza dei pesi e delle misure, il rispetto delle norme igieniche. Le votazioni avvengono di norma palesemente, per alzata di mano, in base al principio tipicamente greco che in politica non ci si nasconde e non si fa i furbi, ma ci si schiera schiettamente e senza timore secondo le proprie idee. Per cui «in ultima analisi, il quadro della pubblica amministrazione, ad Atene o in una qualunque altra pólis, non è così diverso da quello di uno stato moderno». La differenza fondamentale è se mai quella della democrazia diretta, che peraltro rispunta anche negli sviluppi più recenti della partecipazione alla politica.
Anche alcuni personaggi di questo mondo e di quest’aria cittadina non sono molto diversi da quelli che occupano uno spazio nel mondo politico moderno. I più caratteristici e divertenti si trovano in un’altra commedia di Aristofane, I cavalieri (424 a.C.); ritratti dal vero dei politici più abietti e spudorati, che fanno a gara nell’adulare bassamente Demo (il Popolo), un vecchietto stupido.
Di qui, dall’idea che in democrazia decidano tutti, gli incompetenti e anche gli immeritevoli, le critiche mosse già nell’antichità e già dal sublime Platone. Platone sogna non il governo di tutti ma dei filosofi, ossia dagli amanti e competenti nella sapienza, capaci di pensare e di provvedere anche per la gente comune, la quale giudica e decide non col cervello ma “con la pancia”, correndo dietro a chi fa le promesse più mirabolanti: come avviene se si propone a un gruppo di ragazzini di scegliere fra un medico o un pasticcere.
Da questa prima parte dedicata alla struttura e al funzionamento dello Stato, Zanetto passa ad altri aspetti non estinti dell’antichità greca: la fisicità del corpo, la grazia delle sue forme nude, quali apparvero nella maliarda Calipso a Ulisse e quali appaiono negli atleti celebrati da Pindaro.
Ma il corpo è anche uno specchio dell’animo, e la sua bellezza e vigore sono prova di virtù. Perciò merita un’attenzione e una cura a cui provvede la magistrale scienza medica, studiata e modernizzata dalla scuola ippocratica operante e irradiante dal V secolo sull’isola di Cos nel mare Egeo, con alcune intuizioni anch’esse fondamentali: la salute fisica dipende dagli equilibri degli organi interni e dai loro umori, che vanno osservati e studiati metodicamente e non genericamente, in clinica, caso per caso, per trovarne le cure appropriate.
A incorniciare il quadro non manca nel volume la descrizione di una tipica giornata dell’uomo greco, quale narrata dall’ateniese Iscomaco a Socrate nell’Economico di Senofonte. Levata di buon mattino, andata nel podere a piedi e istruzioni ai braccianti; ritorno e una cavalcata in campagna per tenersi in esercizio da bravo soldato; rientro di corsa dalla scuderia, doccia e infine pranzo.
Uguaglianze, e diversità, ovviamente: come conclude Zanetto, il confronto col nostro mondo e col nostro modo di vivere ci impone di riconoscere che sono molto diversi: «e tuttavia non possiamo capire nulla di noi, se non ci confrontiamo con i Greci».