Cristiani sull’orlo dell’ateismo
di Giovanni Reale (Corriere della Sera, 14 febbraio 2010)
Molti credono di sapere che cosa significhi essere «credenti» e essere «atei», ma in realtà i più in materia hanno idee tutt’altro che chiare e distinte. Un famoso giornalista si presentò a un uomo di grande statura spirituale per fargli una intervista su Dio dicendogli che, però, lui si considerava ateo. E si sentì subito rispondere: «Guardi che chi sia veramente credente e chi sia veramente ateo lo sa solo Dio». Dostoevskij pensava che, in un certo senso, l’ateo si trova al primo gradino della strada che porta a Dio, in quanto sente il problema.
La situazione è oggi assai più complessa e forse solo oggi si manifesta l’ateo nel senso pieno della parola. Hanno iniziato i Neopositivisti viennesi con l’affermazione che la parola «Dio» andrebbe eliminata dal lessico scientifico, in quanto sarebbe totalmente priva di senso. Ma questo modo di pensare è condiviso anche da alcuni giovani, da cui mi sono sentito dire che per loro quello di Dio è uno pseudoproblema, anzi un «non problema». La figura dell’ateo più ambigua è però quella del sedicente credente, che si nasconde sotto la maschera della fede, e che contrae la dimensione del religioso in quello che- sotto molti aspetti - è il suo contrario.
Il libro di Marco Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio - La religione come verità e come menzogna (Bompiani, pp. 159, € 16) affronta il problema in modo provocatorio (e in certi punti con paradossi e iperboli), ma assai efficace. La religione viene spesso trasformata in una teologia sociale, mondana, progressista, anticristiana. In effetti, «nel suo connubio col sociale, col politico, la religione genera vincoli di unione parziale, di gruppo e di conseguente separatezza dall’universale».
Perciò, dice Vannini: «Il regno di Dio non è di questo mondo; non adeguarsi al mondo, è il vero modo di amarlo». Agostino precisava che il regno di Dio è già entrato con Cristo «in» questo mondo, ma non è «di» questo mondo, in quanto opera non amando ciò che ama il mondo e in questo senso aiuta il mondo stesso.
I due assi portanti del libro sono, a mio avviso, i seguenti. In primo luogo, Vannini rivendica l’importanza del pensiero platonico nella formazione del pensiero cristiano, con l’affermazione del primato dell’interiorità, mediante la conversione spirituale e l’imitazione di Dio. E trae le seguenti conclusioni: «Privato dell’eredità platonica, il cristianesimo è tutto accomodato al sociale, ovvero al "grosso animale", all’io e soprattutto al noi, con la correlata immagine idolatrica di Dio. Rivolto ai beni terreni - la pace, la giustizia sociale, la salvezza ( salus) diviene salute, politicamente corretto, liberale, democratico ecc. - è ormai una banalità accettabile da tutti, in quanto autoaffermativa, senza conversione, senza distacco, senza spirito: di fatto, un sostanziale ateismo».
Si tenga presente che è stato proprio Platone a introdurre, oltre che il termine di «teologia», anche l’immagine di «conversione», ossia il «voltarsi» per intero dalle tenebre della caverna alla luce del sole, ossia del Bene. I primi cristiani l’hanno fatta propria e consacrata, in quanto esprime in modo metaforico il concetto del «metanoein», del cambiare modo di pensare con l’aiuto della grazia.
In secondo luogo, Vannini punta sul concetto di «spirito», come rapporto dialettico fra uomo e Dio, con al centro la divinità di Cristo, più che sul concetto di anima. Va ricordato che il concetto di anima (psyché) è una creazione dei greci. Si pensi che Platone usa il termine 1.143 volte, Plotino 1.509, Aristotele 785. Nei Vangeli il termine psyché è usato poche volte, ma con il prevalente significato di «vita» ed è un errore ermeneutico caricarlo dei significati metafisici ed escatologici ellenici. Il concetto cardine del Cristianesimo è quello della incarnazione di Cristo e della risurrezione della carne, che è in distonia con la concezione greca dell’anima (Plotino diceva che non si deve parlare di risurrezione della carne, ma di risurrezione dalla carne, ossia della liberazione dell’anima dal carcere del corpo).
Il richiamo del concetto di spirito che fa Vannini «capace di tenere insieme, senza confusione, finito e infinito, umano e divino», al di sopra di quello di psyché, è assai stimolante. L’essere o la sostanza dell’anima, in effetti, non è riducibile al puro elemento psicologico, ma consiste proprio in quel nesso strutturale dinamico-relazionale fra uomo e Dio e viceversa. E, ispirandosi a Meister Eckhart (da cui è tratto anche il titolo dell’opera), Vannini precisa: «Il fondo dell’anima non è un facoltà, una "potenza" dell’anima, ma in esso opera la grazia increata, Dio stesso che "opera con l’anima tanto da liberarla da se stessa, in quanto creatura, in modo che non resti niente, se non Dio e l’anima stessa, senza mediazione"».