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MUSICA, CULTURA, E POLITICA. Fondatore con Gianni Bosio del Nuovo Canzoniere Italiano, era dagli anni ’90 il direttore dell’Istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino.

A IVAN DELLA MEA UN SALUTO. Il cantautore, lo studioso, lo scrittore, il militante, l’uomo è morto la notte scorsa all’ospedale San Paolo di Milano.

Per Jaca Book era uscita quest’anno la sua autobiografia Se la vita ti da uno schiaffo. Giornalista pubblicista ha curato rubriche per L’Unità e per Liberazione e ha collaborato a lungo con il Manifesto.
domenica 14 giugno 2009 di Federico La Sala
[...] Iscritto per la prima volta al Pci nel 1956, Della Mea aveva sempre seguito con attenzione il dibattito interno alla sinistra italiana. Nel 2007, in una dura requisitoria contro l’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti, aveva scritto: "Noi siamo stati l’etica della sinistra, quella che è stata distrutta nel nome della ragione di partito. E’ questo l’errore più grave che non abbiamo saputo o voluto vedere". In una delle ultime interviste, rilasciata a Liberazione il 15 maggio (...)

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> A IVAN DELLA MEA UN SALUTO. ---- CESARE BERMANI, GIANFRANCO CAPITTA, GABRIELE POLO, ALESSANDRO PORTELLI

domenica 21 giugno 2009

CESARE BERMANI RICORDA IVAN DELLA MEA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 giugno 2009 col titolo "Le provocazioni di un bastian contrario" e il sommario "Sinistra italiana. Piccole e grandi storie. Dalla Milano anni ’50 e ’60 all’Amendoleide"]

Con Ivan se ne va una fetta importante della vita di tanti compagni. Difficile, direi impossibile, comprimere in poche righe una personalita’ cosi’ complessa come la sua. Ivan e’ legato agli anni piu’ belli della mia vita, gli anni 1962-1969 che segnarono lo svilupparsi della ricerca sul campo del canto sociale italiano e della realta’ di base, il decollo del Nuovo Canzoniere Italiano, spettacoli come Bella ciao e Ci ragiono e canto, infine lo sfociare di tutto questo nella cultura del Sessantotto. Sia Ivan che io avevamo gia’ alle spalle una milizia nella Federazione Giovanile Comunista, in quegli anni pervasa da un desiderio d’autonomia rispetto al Partito degli adulti. Credo pero’ che sia stato l’incontro con Gianni Bosio a determinare su che binari si sarebbero incanalate le nostre vite. Gianni fu per entrambi un "padre". Grazie a lui io divenni, credo, uno "storico", e Ivan il cantante che meglio e piu’ degli altri assimilo’ il progetto politico-culturale del gruppo, in particolare il rapporto tra grande e piccola storia, leit motiv dell’opera di Bosio. Ivan giunse nel gruppo con una drammatica testimonianza autobiografica, cantata con impegno di liberazione, che forse non ha mai completamente raggiunta tanto traumatica era stata la sua esperienza infantile e adolescenziale. La prima volta che comunico’ la sua storia familiare riusci’ a cantarla solo con la schiena voltata agli ascoltatori e con la faccia rivolta al muro. Poi di quella sua tragedia parlo’ sempre poco, se non in questi ultimi anni, ma riusciva a farlo solo scherzandoci su, come soltanto riuscivano a raccontare certi reduci dai campi di sterminio.

Pochi giorni fa mi disse che finalmente era riuscito a scriverne estesamente in Se la vita ti da’ uno schiaffo, pubblicato dalla Jaca Book. Non potei fare a meno di dirgli: "Ce l’hai fatta finalmente!". Quel lungo poemetto in musica che ce lo fece conoscere, pregno di un’intensita’ sofferente, lo intitolo’ poi La grande e la piccola violenza. Anticipava di un buon decennio il "personale-politico" e se da esso una morale se ne poteva trarre era che la grande violenza del fascismo aveva generato tante "piccole violenze" quotidiane, tra cui quella generata dal comportamento violento di suo padre nei confronti di sua madre.

Del sodalizio di quei primi anni con Ivan ricordo in particolare uno spettacolo sperimentale che curammo assieme, Altri vent’anni, andato in scena il 18 marzo 1966, critico verso le politiche culturali della sinistra dalla Liberazione in poi. Notavamo allora come l’abbandono del concetto stesso di "cultura di classe" tendesse a sospingere le organizzazioni di sinistra "nella direzione della propagazione della cultura oggi piu’ confacente alla societa’ dei consumi e alla forza ideologica che, pur sotto svariate tendenze partitiche si avviava a esserne la coerente espressione politica, ossia la socialdemocrazia". E affermavamo come non ci sembrasse percio’ "un aspetto negativo il progressivo svuotamento di tali organizzazioni, il loro abbandono da parte della classe; negativo e’ semmai che stentino a sorgerne di nuove e intimamente diverse".

Tanto per ricordare che certi problemi dell’oggi hanno radici lontane. Quindi, la sinistra italiana, nella quale abbiamo sempre militato in questo o quel raggruppamento, c’e’ tuttavia sempre andata anche molto stretta. Da cui un nostro permanente essere critici nei suoi confronti e la fama - debbo dire piu’ che meritata - di essere dei rompiballe e dei "provocatori".

Molte canzoni e atteggiamenti di Ivan furono infatti espressione di voluta, anche se non sempre ponderata, provocazione politica verso prassi che non si riusciva piu’ ad accettare. Da Nove maggio, che stigmatizza il fatto che Longo e Parri fossero stati nella celebrazione del Ventennale della Liberazione di due mesi prima a fianco di Andreotti, che Ivan canto’ perche’ Cossutta gli aveva detto di non farlo in uno spettacolo abbinato proprio a un comizio di Luigi Longo, all’"Amendoleide", cantata in una sezione del Pci romano: "Amico mio di Roma / stanotte ho fatto un sogno / tu eri al governo / leggevi l’Unita’. / Ma poi mi son svegliato / e ho letto sul giornale / che alle ultime elezioni / a noi e’ andata male".

Il suo modo d’essere lo portava a coniugare comunismo e anarchia, ateismo e cristianesimo, facendolo stare con naturalezza dalla parte di tutti gli sfruttati e di tutti gli emarginati, sino a rivendicare il "diritto alla follia". Ne L’estremista canta: "Rileggo Pasolini / il suo demofascismo / e’ oggi la cultura / cresciuta a maggioranza / e contro Cristo avanza / un clericofascismo / per il diverso e l’altro / c’e’ zero tolleranza / Rileggo anche Basaglia / e sono nei suoi matti / e sono nei migranti /e in tutti i mentecatti".

Ivan e’ stato parte fondamentale della colonna sonora di una generazione di militanti perche’ le sue canzoni erano sempre il portato di una ricerca continua delle trasformazioni e di una poetica apparentemente semplice ma che solo lui ha saputo mettere in pratica: "La realta’ si impara dove la realta’ si fa e cosi’ la vita e cosi’ il mondo". Questo gli ha permesso di creare veri gioielli come El me gatt, Ballata per l’Ardizzone, Io so che un giorno, Mio Dio Teresa tu sei bella, Creare due, tre, molti Vietnam, la canzone che piu’ incarna lo spirito del ’68. E gli ha permesso di essere il cantore della Milano degli anni Cinquanta e del "lungo Sessantotto", quella che forse solo il suo amico Primo Moroni conosceva meglio di lui.

Ma ecco, per esempio, come e’ nata una sua ballata. Nel 1973 lui e Clara vennero a trovarmi a Zaccheo, in Abruzzo, dove passavo le vacanze. L’8 agosto andammo a registrare alla festa di San Donato a Castiglione Messer Raimondo. Dalla processione e dai suoi canti Ivan trasse spunto per quella sua bellissima ballata che e’ Compagno ti conosco dove si interroga sul simbolismo religioso e laico.

Dal 1996 Ivan ha anche fatto il presidente dell’Istituto Ernesto de Martino. Recentemente aveva chiesto di essere sostituito per motivi di salute. Avrebbe dovuto starsene un po’ tranquillo ma non ce l’ha fatta a pensionarsi. E’ sempre stato goloso di esperienze e ha sempre ingurgitato la vita tutta quanta. A settant’anni non si cambia. Cosi’ e’ morto sul campo, in piena attivita’.


GIANFRANCO CAPITTA RICORDA IVAN DELLA MEA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 giugno 2009 col titolo "Ricordi. ’O cara moglie’, tra affetti e scioperi]

E’ soprattutto gratitudine che il ricordo personale di Ivan Della Mea puo’ ispirare. Quella per le sue canzoni indimenticabili che hanno segnato il passo di diverse generazioni verso un cielo bianco di carta; quella per la passione politica che e’ riuscito a contagiare senza mai fare prediche o astrazioni; quella piu’ forte di tutte, forse, per essere sempre stato, nelle sue parole, nelle musiche e negli scritti, un uomo intero, quasi fosse lui per molti di noi quel omm. Che a fianco alla politica e alla ragione ha sempre sostenuto le ragioni del cuore. Anche nel senso piu’ privato. Tanto che le sue canzoni cominciarono a entrare come corpi "clandestini" (come De Andre’ del resto) prima ancora del ’68 nelle aule severe dei licei. E a venir cantate come un linguaggio altro e nuovo, che pure riusciva a esprimere qualcosa che pareva altrimenti inesprimibile. O cara moglie raccontava di scioperi e padroni e crumiri, ben prima dell’autunno caldo, ma attraverso la ricaduta dentro un universo familiare che poteva davvero essere familiare a chiunque. E dopo pochi anni, quando la lotta politica aveva dilagato nelle scuole e nelle piazze, Ivan Della Mea scrisse per Angela il piu’ bello e caloroso e vissuto degli inni all’amore. Un uomo formidabile Della Mea, un cantautore che piu’ cantava il valore della politica, piu’ allargava il cuore verso la pienezza dell’esistenza. Suo fratello Luciano dava la forza del ragionamento dentro acque che si intorbidavano sempre piu’ senza quasi ce ne accorgessimo; lui Ivan faceva di ogni canzone (e quante ne ha fatte divertenti) una smorfia allegra. Con voli improvvisi di delicatezza degni di un grande retore del passato. La Gelmini avrebbe ancora molto da imparare se riuscisse ad ascoltare fino in fondo la Ballata di Ciriaco Saldutto. Noi per fortuna lo terremo sempre nel cuore e nella memoria.


GABRIELE POLO RICORDA IVAN DELLA MEA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 giugno 2009 col titolo "Il Mea. Una vita da sovversivo narrante"]

Cantastorie, poeta, scrittore: intellettuale non "organico", bensi’ "rovesciato", per citare un libro del suo maestro, Giovanni Bosio. Questo e’ stato Luigi Della Mea, per tutti Ivan, per pochi "il Mea": l’esatto contrario di cio’ che e’ accademia o sapere separato da pratica e senso, l’opposto di impegno politico inteso come un mestiere qualsiasi. Insomma, un militante indipendente che intendeva il comunismo come ricerca e pratica della liberta’. Quella di dire e fare cose scomode, soprattutto contro il potere, contro ogni potere. Anche quello che nasce a sinistra, anche quello "tuo personale", come cantava in Lettera a Michele, all’inizio degli anni ’70, quando il "personale" non era ancora "politico", ma quando "il Mea" aveva gia’ capito tutto su come le burocrazie potevano trasformare la militanza nell’alienazione dei sovversivi.

Ecco, un sovversivo. Questo, nel profondo, era "il Mea", che ha raccontato le alienazioni e contro di esse si e’ battuto, non solo a parole, semmai usandole per costruire una narrazione comune. Quella indispensabile a capire la costrizione e a cercare di vivere la liberta’. Sovversivo con gli altri e con se stesso, contro l’ordine costituito e contro quello "nuovo" dei suoi compagni di strada. Nelle feste dell’Unita’ e nei picchetti davanti alle fabbriche, nelle canzoni e nei suoi libri. Sovversivo persino con la propria esistenza (raccontata nel libro appena uscito, Se la vita ti da’ uno schiaffo, Jaca Book), che ha sottoposto a continui stress, fino alla fine ("Mica posso stare fermo, al diavolo i medici e le loro previsioni").

Sovversivo anche con noi, con questo giornale, cui ha dato canzoni e articoli, senza accettare nessun freno. Con quella voce strana su una chitarra rappezzata, con quella scrittura unica su una tastiera da cui a volte "spariva" la punteggiatura. Sarcastico e passionale, tenero e incazzato. Mandandoti al diavolo se non riceveva risposta nel giro di qualche minuto, perche’ "tutto si puo’ sopportare, tranne il silenzio o l’indifferenza".

"Mio il dovere di proporre, tuo il potere di disporre", scriveva a premessa di ciascun articolo che spediva. "Mea, scrivi troppo. E, poi, quale potere... qui siamo tutti schiavi del poco spazio". Sbottava: "Non fare il pirla con me, per quanto poco lo spazio c’e’ e c’e’ sempre chi sceglie come usarlo". Se vale per l’avversario - pensava - vale anche per noi. Questa la lezione, che finiva col metterti al muro nel cortocircuito della partecipazione personale: "Se non capite quanto vi voglio bene, sono solo problemi vostri". Ciao "Mea", cantastorie, poeta, scrittore... compagno. Termine da maneggiare con cura, un tempo inflazionato, oggi vilipeso. Con te si poteva usare senza paura di disperderlo o prendersi in giro.


ALESSANDRO PORTELLI RICORDA IVAN DELLA MEA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 giugno 2009 col titolo "Segni di resistenza con gli occhi di Ivan" e il sommario "Ha cantato, scritto e parlato di politica, di restaurazione clericale e di guerra fredda. Ma la voce imperfetta di Ivan Della Mea, morto sabato notte a Milano, si e’ fatta anche denuncia dei nuovi mostri nel mondo globale"]

Quando mori’ Gianni Bosio, suo amico, interlocutore, maestro, Ivan Della Mea gli dedico’ una delle sue canzoni piu’ belle: Se qualcuno ti fa morto. Se qualcuno ti fa morto, diceva, un motivo c’e’: ti commemorano, ti fanno elogi e monumenti di parole, ma se ti fanno morto e’ perche’ non credono piu’ alle ragioni della tua vita. Basterebbe una canzone come questa per complicare quell’etichetta di "cantante di protesta" che Ivan Della Mea si portava appresso fin dagli anni ’50 - come se avesse da dire solo cose contro cui lottare, e non anche moltissime cose per cui vivere. Ivan ha cantato, scritto, parlato la politica e le lotte, ma soprattutto i sentimenti, i rapporti che a quelle lotte davano, e se non vogliamo farlo morto, daranno ancora un senso.

Nato in Toscana, cresciuto a Bergamo, cantava in milanese le sue canzoni rivolte a Gianni Bosio: ti ricordi, Giovanni, del quarantotto, quei bei tempi di buriana, "vegniven giu’ da la rocca de Berghem i tusan braccia’ su tucc’insema, tutt’insema cantaven, cantaven - Bandiera Rossa, Giuan, te se ricordet". Il suo comunismo cominciava - "avevo otto anni, calzettoni e due grandi occhi per guardare" - con quell’immagine di amicizia e di gioia, era quello il mondo sognato da creare. E quando poi i ragazzi sconfitti cantavano ancora Bandiera Rossa, la guerra e la rabbia che avevano negli occhi era quella di chi e’ respinto a forza in un mondo cupo di solitudine e repressione.

Accanto alla grande violenza della restaurazione clericale e della guerra fredda, Ivan cantava la "piccola violenza" del mondo familiare, e - come suo fratello Luciano, un altro maestro della nostra cultura e della nostra storia - ci vedeva le radici della violenza maggiore. Quando comprai titubante il suo primo disco, i suoni con cui cominciava - il rumore antimusicale di un motore di scooter - mi sconcertarono, e altrettanto mi sconcertava la sua voce non canonica e imperfetta. Ma Io so che un giorno era la piu’ acuta e poetica denuncia che avessi ancora sentito del nuovo mondo che avanzava, che ti comprava il cervello in cambio di una lavatrice, che trattava per matto chi cercava altre liberta’ (Luciano ne sapeva qualcosa), e che mascherava tutto sotto una coltre di bianco elettrodomestico e manicomiale. Il rumore, le imperfezioni, anche la qualita’ ruvida di una registrazione fatta in economia, erano tutti segni di una resistenza a quella bianca pulizia senz’anima.

Non e’ stato un cantore di vittorie, di sorti magnifiche e progressive di un comunismo portato dall’onda della storia. A ripensarci, tante delle sue canzoni parlano di sconfitte, di compagni uccisi (Serantini, Ardizzone), di lotte andate a male - e della orgogliosa determinazione a ricominciare. La sua canzone piu’ cantata, quella entrata davvero nella tradizione orale, O cara moglie, e’ la storia di uno sciopero sconfitto, di un operaio licenziato, del ricatto padronale che convince o costringe tanti operai a chinare la testa e rientrare in fabbrica - e gli scioperanti che gli gridano crumiri e venduti, ma vedono la loro umiliazione anche come un’offesa fatta a se stessi. Ma la storia e’ raccontata nel calore di una cucina operaia, condivisa con l’amore familiare, con la proiettivita’ nei confronti del figlio che si trasforma in orgoglio e insegnamento. Alla grande violenza della repressione e dei licenziamenti risponde, stavolta, la "piccola" resistenza dei sentimenti, dell’amore, della dignita’. E da qui si ricomincia, oggi come allora.

La cucina di O cara moglie e’ anche un pezzo di quel mondo popolare, "di ringhiera", in cui Ivan si e’ sempre riconosciuto. Da questo mondo viene la piu’ perfetta della canzoni, El me gatt, a questo mondo ha dedicato un disco (Ringhiera), e questo mondo frequentava in quell’"arcicorvettocheincormista’" di cui ci raccontava ogni tanto nelle sue lettere al "Manifesto", e che in cuor gli stava anche quando i discorsi che sentiva li’ dentro non gli andavano piu’ tanto bene - un po’ perche’ al cuore non si comanda, e un po’ perche’ una cosa sono i discorsi e un’altra le persone, e che se certe persone a cui si vuol bene parlano in un certo modo un motivo ci sara’ e noi dobbiamo ascoltare e capire per cambiare.

Ivan aveva fatto una vita faticosa e logorante negli ultimi anni, in continuo movimento fra Milano e Sesto Fiorentino, per tenere in vita la creatura piu’ importante e piu’ amata, sua, di Gianni Bosio, di Franco Coggiola, e di tanti che da loro avevamo imparato: l’Istituto Ernesto de Martino, il cuore della memoria e della cultura profonda di un’Italia che vogliono annullare e farci dimenticare. Era davvero un sacrificio, non solo per la fatica fisica ma anche perche’ in fondo quella di organizzatore e dirigente non era neanche la sua vocazione - ribelle fino in fondo, si adattava con sforzo generoso alle esigenze dell’organizzazione, dell’ordine, dell’amministrazione. Ma davvero non c’erano altri che potessero farlo, che rappresentassero cosi’ intensamente quella storia (comprese le divisioni, i conflitti, le riconciliazioni, gli incontri) di persone, di suoni, di parole, di carte. Anche questo era un dovere d’amore.

Come facciamo a non "fare morto" l’indimenticabile Ivan Della Mea? A me la notizia arriva via internet mentre sono a Whitesburg, in Kentucky, e ieri ho ascoltato una giornata bellissima di musica e di condivisione, creata da Appalshop, un’organizzazione praticamente sorella del de Martino. Leggendo la notizia di Ivan ho pensato che se fosse stato qui ieri si sarebbe divertito e si sarebbe sentito a casa, non tanto per la politica felicemente obamiana (su cui sono sicuro che avrebbe avuto qualche critica) quanto perche’ quello che ha sempre cercato di fare e’ stato di tenere insieme le persone in nome di un desiderio bello e sensato, di festa e non solo di lotta. In un film prodotto da Appalshop, Sara Ogan Gunning, una delle voci piu’ grandi della canzone proletaria americana, canta in una canzone la storia della sua vita e conclude "e cantate sempre le mie canzoni". Per non fare morto Ivan Della Mea, cantiamo ancora A quel omm, La pipa di Costante, A Costabona... Ma ricordiamo anche quello che Phil Ochs diceva, in memoria di Woody Guthrie: "Oggi tutti cantano le sue canzoni, ma che senso ha cantarle senza le ragioni per cui lui le ha scritte?". Le ragioni di Ivan erano tante, qualche volta contraddittorie. Ma lo possiamo salutare con la parole che Gianni Bosio gli disse, e che lui canta, dopo una grande giornata di ricerca sul campo in Toscana: "qualcos’em fatt". Grazie a Ivan, qualcosa abbiamo fatto e molto ci resta da fare.

Fonte: La domenica della nonviolenza. 221 del 21 giugno 2009


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