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Idee

Ci vorrebbe un altro Federico II - di Franco Cardini - selezione a cura del prof. Federico La Sala

sabato 25 febbraio 2006 di Emiliano Morrone


IDEE
Estese il suo impero dal Nord Europa al Mediterraneo e seppe regnare rispettando le altre culture. Un modello ancora attuale
CI VORREBBE UN ALTRO FEDERICO II
Fu «feudale» in Germania e «pluralista» in Italia. Le sue regole sono alla base ancora della realtà federale tedesca. Nonostante la crociata non alimentò lo scontro di civiltà e fece di Gerusalemme una «città aperta»
di Franco Cardini (Avvenire, 24.02.2006)
Ha senso in (...)

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> Ci vorrebbe un altro Federico II --- La questione di Federico. Una visione dell’impero tra tradizione e modernità (di Marina Montesano).

domenica 7 febbraio 2010


-  UNA VISIONE DELL’IMPERO TRA TRADIZIONE E MODERNITÀ
-  La questione DI FEDERICO

-  Considerato di volta in volta come un sovrano di stampo medievale o come il fautore di un governo libero dalle influenze ecclesiastiche, Federico II è al centro di alcuni recenti saggi, fra cui uno studio di Wolfgang Stürner, che dell’imperatore svevo sottolinea i lati innovativi, a partire da un’idea di Stato responsabile del rispetto del diritto

-  di Marina Montesano (il manifesto, 04.02.2010)

Tra i grandi personaggi del Medioevo, Federico II Hohenstaufen è uno dei pochi ad attirare l’attenzione anche di coloro che non si occupano in modo approfondito di quel periodo storico. Soprattutto nella sfera italo-meridionale, il mito federiciano sembra essere ancora molto vivo: sovrano «medievale» o «moderno»? eretico o solo fautore di un governo laico, libero dalle influenze ecclesiastiche? È sulla base di tali domande che molti studiosi hanno impostato la cosiddetta «questione federiciana».

Come sottolinea Ortensio Zecchino nella prefazione alla recente edizione italiana dell’opera di Wolfgang Stürner, Federico II e l’apogeo dell’impero (Salerno editrice, pp. 1128, euro 84), pubblicata in due volumi in Germania fra 1992 e 2000, quanti oggi si pongono questi interrogativi, riflettono un dibattito storiografico antico e acceso, che difficilmente troverà soluzione, e che in fondo poggia su alcuni pseudoproblemi di carattere principalmente nominalistico: primo fra tutti quello, appunto, della «laicità» e «modernità» dell’imperatore e della sua opera.

Erede di molte corone

Basti ricordare che lo stesso sovrano non mostrava alcuna intenzione di voler accordare alle città del regno d’Italia - dove difficile permaneva il problema del rapporto fra la corona e i comuni, solo temporaneamente risolto dalla pace di Costanza del 1183 - maggiori libertà di quanto non avesse già fatto circa mezzo secolo prima il suo avo Federico I. Ben diversa la situazione in Germania dove, con la Constitutio in favorem principum del 1232, venivano adottate misure che andavano in una direzione opposta rispetto a quella sancita nel Liber Augustalis, in quanto Federico II affidava il regno tedesco ai vari principi dell’impero, in tal modo legittimando giuridicamente quel carattere policentrico che sarebbe stato tipico di tutta la successiva storia della Germania e che avrebbe costituito la premessa per l’assetto federale sia del «secondo Reich», sia dell’attuale repubblica.

Difficile parlare di opera di sintesi per un volume come quello di Stürner che supera le mille pagine: e in effetti il libro è molto più di questo. Né ha senso, in campo storiografico, parlare di opera definitiva, e lo stesso autore lo sottolinea aprendo l’edizione italiana con un capitolo di aggiornamento bibliografico in cui passa in rassegna gli studi federiciani dell’ultimo decennio. Federico II e l’apogeo dell’impero è invece una biografia ragionata e documentata della straordinaria parabola dell’imperatore svevo, nella quale si discute soprattutto il rapporto tra la sua fedeltà alle istituzioni tipiche del suo tempo e le sue prospettive di innovatore.

Una dicotomia dinanzi alla quale Stürner non si astiene dal prendere posizione: «Tra i tratti peculiari di Federico, molti evidenziano come fosse radicato nel suo tempo, come subisse l’influsso di concezioni e principi della tradizione medievale. Ciò vale per la sua religiosità cristiana e per la sua visione dualistica dell’ordinamento sociale, fondato sulla volontà di Dio... Ma, al di là di questo legame consapevole con la tradizione, il progetto di Stato messo a punto dallo Svevo, con particolare riferimento al Regno di Sicilia, alludeva chiaramente al futuro, nei suoi aspetti più caratteristici: considerando lo Stato responsabile del benessere dei sudditi e del rispetto del diritto, rifiutando ogni ingerenza e controllo ecclesiastico in questo specifico campo di attività, creando una gerarchia amministrativa subordinata alla corte, impegnata in un raffinato lavoro di scrittura e, infine, richiedendo ai suoi funzionari specializzazioni e qualità morali straordinarie. Di sicuro può esser presa a modello la convinzione fondamentale di Federico - da lui sostenuta con passione e trasposta nella realtà - secondo la quale esercitare la sovranità significa prima di tutto garantire il diritto e la giustizia, così da assicurare la pace».

In tutte queste componenti della concezione dell’impero, la pace riveste in effetti un ruolo fondamentale. In quanto garante della giustizia e custode del suo popolo, l’imperatore è fons iuris e lex animata in terris; a lui spetta dunque il ruolo, addirittura il dovere di guidare la societas christianorum verso la felicità terrena garantita dal bonum commune. Non casualmente nel corso della «crociata diplomatica» invisa al papato, che lo condusse a un accordo con il sultano a proposito del possesso di Gerusalemme, Federico aveva sottolineato come il bene supremo della pace fosse obiettivo primario della sua missione imperiale, congiunto sempre alla iustitia senza la quale la pace - intesa in senso profondamente agostiniano - è una vuota parola.

Il progetto imperiale dello Svevo è un edificio che egli cercò di costruire nel tempo, attraverso fasi differenti; per questo il volume di Stürner si snoda seguendo una precisa scansione cronologica. Secondo quanto voluto da Federico I Barbarossa, suo figlio Enrico VI era divenuto re di Sicilia nel 1186 in seguito al matrimonio con Costanza d’Altavilla, e imperatore nel 1190, dopo la morte del padre. L’incoronazione ebbe luogo a Palermo, nel Natale del 1194. Proprio il giorno seguente a Iesi l’imperatrice Costanza dava alla luce Federico Ruggero, che riassumeva nei nomi il ricordo dei fondatori dell’impero svevo e del regno siciliano. Tuttavia Enrico VI morì appena trentenne, nel 1197, lasciando una situazione difficile.

Figlio di un imperatore romano-germanico e di una principessa siculo-normanna, Federico nasceva erede di molte corone. Anzitutto di quella imperiale. Essa, però, non era ereditaria: erano i principi tedeschi ad assegnarla eleggendo i re di Germania, che a loro volta, come «re dei Romani», erano candidati anche alla corona imperiale. In quanto re di Germania, egli era anche erede della corona di Borgogna e di quella d’Italia. Tutte queste corone, però, assicuravano diritti e prestigio ma non davano potere, perché il titolo comportava potenza soltanto se si era già forti: in caso contrario era praticamente impossibile far valere i diritti regi sui feudatari tedeschi o sulle città d’Italia. Diverso era il discorso per il regno di Sicilia, dove esisteva una forte compagine statale. Tuttavia, la dinastia degli Altavilla doveva la conquista del regno a se stessa, ma il titolo e la corona regali al papa, del quale era formalmente vassalla. Inoltre, siccome le terre del regno di Sicilia erano separate da quelle del regno d’Italia (che faceva parte dell’impero) da una fascia di territori a vario titolo rivendicati dalla Chiesa come dominio temporale, il papa non vedeva di buon occhio l’unione del regno siciliano all’impero.

Inizialmente, il pontefice Innocenzo III appoggiò l’erede: così, nel 1212, Federico fu eletto re dei Romani in cambio di ampie garanzie al papa e, finché visse Innocenzo, non si permise di condurre una politica personale troppo pronunziata. Ma con il successore, Onorio III, la situazione cambiò: nel 1220 egli si fece incoronare imperatore, dopo aver indotto la nobiltà tedesca ad attribuire la corona di Germania al figlio Enrico, senza mostrare alcuna intenzione di abdicare al regno di Sicilia. Non intendeva infatti abbandonare la Sicilia, in parte perché vi era stato allevato e si sentiva culturalmente più italo-normanno che tedesco, ma soprattutto perché ne conosceva le straordinarie possibilità economiche e l’altrettanto straordinaria posizione geografica. Federico si dette quindi a un’azione di consolidamento delle istituzioni del regno di Sicilia, per passare poi a quello d’Italia, dove progettava di ridurre all’obbedienza i comuni.

Nel 1227, alla scomparsa di Onorio III, salì al soglio pontificio Gregorio IX, deciso a non tollerare oltre la condotta di Federico II in materia di politica ecclesiastica e il mancato adempimento agli obblighi che si era assunto in ordine alla separazione tra impero e regno di Sicilia. C’era inoltre la questione della crociata, che Federico non pareva troppo interessato a compiere: costretto infine a partire nel 1228 da una scomunica, volse la spedizione in una missione diplomatica, scendendo a patti con il sultano Malik al-Kamil e cingendo la corona di Gerusalemme grazie al matrimonio con l’ereditiera Isabella-Iolanda di Brienne. Nonostante Gerusalemme fosse di nuovo cristiana, il papa fu tutt’altro che lieto del risultato, e bandì una crociata contro Federico, «peggiore dei saraceni», che dovette scendere a patti con il pontefice.

Tra guelfi e ghibellini

Di questo rinnovato periodo di pace l’imperatore seppe approfittare e nel 1231 emanò per il regno di Sicilia un nuovo insieme legislativo, il Liber Augustalis, che dimostrava come Federico avesse appreso la lezione bizantina e tenesse nel massimo conto la tradizione normanna: tali leggi miravano difatti a costituire uno stato centralizzato, burocratico, tendenzialmente livellatore - già avviato insomma a concezioni che molti hanno reputato «moderne», sebbene sia opportuno sfumare una contrapposizione così netta tra istituzioni medievali e modernità, come si evince dall’ampio profilo di storia istituzionale recentemente dato alle stampe da Mario Ascheri (Medioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, Il Mulino, pp. 422, euro 27).

Anche per il regno d’Italia, dove era vivo il problema del rapporto fra la corona e i comuni, egli spingeva nella medesima direzione, mentre oltralpe, come si è detto, assumeva posizioni opposte, affidando il regno nelle mani dei principi dell’impero. Di fatto, Federico aveva intenzione di governare direttamente in Sicilia e in Italia, mentre sapeva bene di non essere in grado di controllare la Germania. Ma in realtà anche in Italia la situazione andava di nuovo verso la destabilizzazione. Federico incoraggiava, contro i comuni, alcune signorie in mano a feudatari «ghibellini», cioè a lui favorevoli. E proprio in età federiciana il conflitto tra «guelfi» e «ghibellini» giunse alla sua fase più acuta e terribile, anche se sarebbe riduttivo interpretarlo alla stregua di una semplice contrapposizione tra fautori del papa e partigiani dell’impero, come mostra efficacemente la raccolta di testi antologici, commentata e curata da Sergio Raveggi, L’Italia dei guelfi e dei ghibellini, Bruno Mondadori, pp. 184, euro 17).

L’ultima scomunica

I guelfi descrivevano Federico come un empio che avrebbe preferito l’Islam al Cristianesimo, oppure come un ateo convinto che le religioni erano tutte imposture. Si giunse, specie da parte di alcuni ambienti eredi della tradizione profetica affidata ai testi di Gioacchino da Fiore, a vedere in lui l’Anticristo. Per contro, l’opinione pubblica ghibellina e alcuni gruppi di eretici vi videro il possibile Reparator Orbis, colui che avrebbe punito i prelati indegni e restaurato la purezza della Chiesa. Nacque addirittura una leggenda secondo la quale egli non sarebbe mai morto ma, sopravvissuto misteriosamente fino alla Fine dei Tempi, sarebbe tornato allora sulla terra a guidare i cristiani contro le forze del male.

Nel 1239 Federico venne comunque nuovamente scomunicato - una decisione ribadita dal nuovo papa Innocenzo IV nel Concilio di Lione del 1245, sebbene non tutta la cristianità accettasse i deliberati di un’assise che si era svolta in condizioni non troppo chiare. Si trattò tuttavia senza dubbio di un colpo gravissimo per il prestigio dell’imperatore, che ne risentì in maniera profonda. Gli ultimi anni di Federico furono tristi, incrinati dalla cattiva salute, dalle ombre dei rovesci politici e militari, dall’ossessione del tradimento. La sua morte, avvenuta a Fiorentino di Puglia nel dicembre 1250, sembrò sancirne la sconfitta politica. Ma al contempo aprì le porte alla nascita del mito.

PROFILO

Alla Magna Curia invitò i più grandi studiosi del suo tempo

La Magna Curia, la corte siciliana di Federico II, rappresentò un centro di sperimentazioni culturali. Un ruolo speciale deve essere assegnato alla «scuola» poetica che vi sorse: la tradizione poetica francese vi venne fusa con influenze provenienti da varie culture, soprattutto quelle greca e araba, e dette vita a un modo di poetare nuovo che si espresse in un siciliano di qualità elevata. Oltre che letterari, gli interessi di Federico furono scientifici e filosofici. Anche in questo, egli seguiva in gran parte la tradizione dei sovrani normanni. Alla sua corte convennero studiosi tra i più notevoli del tempo, come il filosofo e astrologo Michele Scoto che tradusse alcune opere di Aristotele; Teodoro, un arabo cristiano; Juda ben Salomon Cohen, enciclopedista ebreo. L’imperatore inviava inoltre molte questioni scientifiche a dotti sparsi un po’ in tutto il bacino mediterraneo. Da parte sua compose un trattato, il «De arte venandi cum avibus», nel quale immise il frutto della sua capacità di osservazione. Lontano dai «Bestiari» a carattere simbolico tipici del tempo, il «De arte» è invece un trattato scientifico che si occupa di ornitologia, di allevamento, di addestramento.


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