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VITA E FILOSOFIA. Per il ventennale della morte di Elvio Fachinelli (1928-1989).

METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI. Una nota di Federico La Sala

AL DI LA’ DEL ’FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO’, UN ESERCIZIO DI PARRHESIA EVANGELICA: PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
sabato 18 febbraio 2012
[...] Vicino/lontano - in un circolo virtuoso, sulla spiaggia, dinanzi al mare. Nel 2009, sostenuto dalla volontà e dal coraggio di mettersi in gioco e di entrare nel gioco (pp. 36-7), Rovatti è giunto “Sulla spiaggia” (E. Fachinelli. La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, pp. 13-25) e, finalmente, ha capito il senso del lavoro di Fachinelli ed è capace di riconoscerne tutto il valore [...]
Psicoanalisi, Storia e Politica....
L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO FASCISMO, E "LA (...)

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> METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. ---- Analitici contro continentali, per Socrate non avrebbe senso

giovedì 26 luglio 2012


-   Analitici contro continentali
-  per Socrate non avrebbe senso

-  Non c’è contrapposizione ma continuità tra filosofia come sapere logico-deduttivo e filosofia come pratica di vita

di FRANCA D’AGOSTINI (La Stampa, 25/07/2012)

Nell’articolo dal titolo «Filosofia prêt-à-porter», apparso su Repubblica di lunedì, Roberto Esposito si interroga su un fenomeno ormai ben noto: la «fortuna» della filosofia nell’epoca della globalizzazione. Festival, café philo , consulenze filosofiche per manager o individui in dissesto emotivo, segretari di partito che indicono riunioni per consultare i filosofi...

Esposito si chiede come mai però a questo gran fervore non faccia seguito alcun «significativo mutamento nelle coscienze, e tantomeno nei comportamenti». E la sua risposta è che un conto è la filosofia come «ermeneutica del sé» praticata dai filosofi che gli piacciono (Foucault e altri continentali) e un altro conto è l’«epistemologia della verità», praticata dai filosofi analitici: la prima avrebbe per oggetto la verità «nella profondità interiore della coscienza individuale», mentre la seconda mirerebbe alla verità come corrispondenza al reale.

Deduciamo dunque: se vi fosse più ermeneutica del sé e meno epistemologia della verità nei dibattiti, nei café philo, nei festival ecc., la filosofia potrebbe effettivamente incidere sulla contemporaneità, determinando quella «mutazione delle coscienze» che si rende necessaria nell’epoca della globalizzazione.

Strano. Anzi direi, decisamente bizzarro. Perché non mi risulta che nei festival, nelle consulenze filosofiche, e nelle riunioni indette dai politici, si pratichi intensamente l’epistemologia della verità o qualcosa del genere. Invece, la pratica che va per la maggiore mi sembra sia proprio e solo una sorta di ermeneutica del sé. Per restare al caso italiano, leggete i nomi dei protagonisti di caffè filosofici e festival, e non trovate mai o molto raramente - filosofi analitici, o comunque «epistemologi della verità».

Si dovrebbe dedurre allora che per i bisogni filosofici della contemporaneità occorrerebbero invece dosi massicce di filosofia analitica? Che i filosofi analitici dovrebbero andarsene in giro a educare l’umanità? Direi di no, specie se per «filosofi analitici» si intende quel che normalmente si intende in Italia, ossia una congrega di studiosi del linguaggio o della scienza, super-specializzati, ottimi professionisti, ma del tutto privi di interesse per i destini dell’umanità e del mondo.

In realtà, Esposito fa bene a segnalare che esiste un problema, ma non sono sicura che sia quello da lui indicato.

Anzitutto: non mi sembra che alla diffusione della filosofia segua solo un «tutto uguale, niente di nuovo». Già soltanto il fatto che si sia identificato come «filosofia» ciò di cui c’è bisogno è a mio avviso un gran risultato, se si pensa che fino a uno o due decenni fa molti si compiacevano di dichiarare, con Richard Rorty, che «la filosofia è un pericolo per la democrazia». Oggi per fortuna simili assurdità sono passate di moda, di fronte all’evidenza inequivocabile che i pericoli stanno decisamente altrove.

In secondo luogo: forse il problema consiste proprio nella dissociazione astratta tra ermeneutica del sé e epistemologia della verità, o tra «filosofia come pratica di vita» e filosofia come sapere «logico-deduttivo, lontano dalla realtà della vita», e categorie simili. Perché mai il sapere logico-deduttivo (se esiste come tale) dovrebbe essere nemico della vita? Esposito - come molti altri, e io stessa - coltiva l’idea «greca» di una filosofia che non è solo una disciplina di studio, ma è anche un’ipotesi antropologica, ossia: un modo in cui gli uomini dovrebbero essere, per essere migliori di quel che sono, per la felicità degli individui e della specie. Ma al centro dell’ipotesi greca c’era precisamente l’intellettualismo socratico, ossia appunto l’estrema importanza del sapere logicodeduttivo (di cui la dialettica socratica costituiva un’estensione), e delle virtù teoretiche. Allora come la mettiamo?

È chiaro che la contrapposizione di cui Esposito si preoccupa è un fatto culturale, e non riguarda la filosofia. Anzi è proprio, a mio avviso, quel dato culturale di cui la filosofia ha sofferto a lungo, dal secondo Ottocento fino agli ultimi decenni del secolo scorso, perché nel momento stesso in cui dico che c’è una incompatibilità tra le pratiche di vita e la conoscenza ècome se dicessi che la filosofia è insensata. All’epoca di Foucault le contrapposizioni tra vita e teoria, pratica politica e pratica intellettuale, forse avevano ancora un senso. L’idea di «sapere oggettivo» ereditata dal mainstream del primo Novecento era davvero esigua e problematica. Oggi però il quadro è cambiato, e coltivare «l’onda montante» della filosofia servendosi ancora di quel linguaggio e di quei parametri significa appunto affondare nel «niente di fatto» di cui Esposito si lamenta.

Piuttosto, vale la pena chiedersi: è davvero e sempre «filosofia», quella che si spaccia per tale? Forse no. Certo è che assistiamo al dominio per lo più incontrastato, in ambito pubblico, di teorie che non sono affatto «filosofiche» pur passando nominalmente per tali: una generica sociologia della cultura, un’etica sommaria e moralistica, con più punti esclamativi che argomenti, e una formidabile messe di banalità infarcite di Kant e Hegel, e talvolta anche (giusto per dire che non si è solo continentali) Searle e Wittgenstein.

La questione allora è molto semplice, e si può dire in breve: è vero che il mondo ha bisogno di filosofia, ma il punto è che anche la filosofia ha bisogno di filosofia.


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