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Sfida educativa: emergenza e nuova alleanza. Evangelo e Costituzione. L’amore ("charitas") non è lo zimbello del tempo e dei mercanti ("caritas") atei e devoti ...

IL DIO DEI MAFIOSI NON E’ CRISTIANO, MA CATTOLICO-ROMANO - ’MEDITERRANEO’. Il sociologo Augusto Cavadi ne parla con Alessandra Turrisi. E don Mario Torcivia parla del "martire" don Puglisi - a cura di Federico La Sala

L’antropologia come la teologia della "sacra famiglia" della gerarchia vaticana è zoppa e cieca: è quella del ’Figlio’ che prende - accanto alla Madre - il posto del padre "Giuseppe" e dello stesso "Padre Nostro"... e fa il "Padrino"!!!
lunedì 21 settembre 2009 di Federico La Sala
[...] «Il cristianesimo è stato declinato, nella storia, in maniere differenti. I mafiosi di Cosa nostra, ’ndrangheta, camorra, Sacra corona unita e stidda conoscono solo la versione che io chiamo ’mediterranea’. A questo universo simbolico attingono per autolegittimarsi: vi cercano un’anima, un’identità culturale, che li giustifichi agli occhi della propria coscienza e dell’opinione pubblica. Non è un caso che tra i riti di iniziazione per un ’uomo d’onore’ vi sia la cosiddetta punciuta, (...)

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> Don Puglisi martire di mafia, un inedito per la Chiesa (di Luca Kocci) --- «Don Puglisi beato e le nostre omissioni» (di don Ciotti).

sabato 25 maggio 2013

Don Puglisi martire di mafia, un inedito per la Chiesa

di Luca Kocci (il manifesto, 25 maggio 2013)

È la prima volta che una vittima della mafia viene proclamata martire dalla Chiesa cattolica. Don Pino Puglisi, il parroco del quartiere palermitano Brancaccio ucciso il 15 settembre del 1993 dai killer dei fratelli Graviano viene beatificato oggi a Palermo, in una celebrazione presieduta dall’arcivescovo di Palermo, il card. Romeo, e dal suo predecessore, De Giorgi, uno dei tre “inquisitori” scelti a suo tempo da papa Ratzinger per indagare sul Vatileaks.

Al di là del trionfalismo che accompagnerà l’evento (previste 80mila persone), il percorso che ha portato alla beatificazione di Puglisi è stato accidentato, fino quasi ad arenarsi, come racconta anche il postulatore della causa, l’arcivescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone: vi erano «legittimi dubbi» sulla questione dell’assassinio in odium fidei (in odio alla fede), elemento ritenuto imprescindibile dalla Chiesa per poter parlare di martirio cristiano. I «dubbi» erano in realtà vere e proprie perplessità, se non resistenze, da parte curiale e vaticana, non tanto sulla beatificazione in sé quanto sull’opportunità di proclamare Puglisi «martire» di mafia. Perché la Chiesa cattolica deve fare i conti con almeno due profonde contraddizioni che hanno caratterizzato la storia del suo rapporto con Cosa nostra.

La prima è quella dei mafiosi che rivendicano pubblicamente la loro fede religiosa e la loro appartenenza alla Chiesa, spesso senza essere smentiti dai pastori, solitamente piuttosto disinvolti a consegnare o a negare patenti di cattolicità a seconda delle circostanze: dalla simbologia e dalla ritualità del codice mafioso mutuata dalla Chiesa, alle Bibbie trovate nelle case dei mafiosi, fino alla partecipazione dei boss in prima fila alle processioni religiose, utilizzate come occasioni per rafforzare il proprio consenso sociale e quindi il loro potere.

La seconda è quella degli uomini di Chiesa che hanno intrattenuto relazioni ambigue, talvolta anche apertamente compiacenti, con i mafiosi: associare la «cosiddetta mafia» alla Chiesa «è una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti» che, per interessi propri, «accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata dalla mafia», scriveva nel 1963 il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, respingendo così l’invito di Paolo VI a prendere iniziative contro la mafia. Meglio Cosa nostra del comunismo era l’idea di Ruffini, anche perché, pensava il cardinale, «trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio».

Dagli anni ’90 le cose hanno iniziato lentamente a cambiare, a partire dall’anatema di papa Wojtyla nella Valle dei templi, nel ’93. E un documento della Cei sul sud d’Italia, del 2010, definisce la mafia struttura di peccato.

Ma silenzi e omissioni restano. E soprattutto resta il dato di una teologia non del tutto evangelica, da cui, se invece lo fosse, i mafiosi si terrebbero a distanza: «Da una Chiesa povera e fraterna i mafiosi si autoescluderebbero da soli e anzi la considererebbero nemica», spiega al manifesto Augusto Cavadi, studioso dei rapporti fra Chiesa e mafia e autore, insieme ad altri, del recentissimo Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo e teologia (Il Pozzo di Giacobbe). «Ora con questa beatificazione, la mafia non potrà più essere considerata dai cattolici un elemento del paesaggio con cui convivere ma un sistema di dominio ingiusto. Gerarchie e fedeli dovranno però uscire dalla stralunata equidistanza fra mafiosi (e amici dei mafiosi, politici in primis ) e guardiani della legalità democratica, dovranno scegliere da che parte stare».

E che questa nuova stagione non sia facile lo dimostrano alcune voci raccolte da Cavadi fra i preti: «Il parroco di Brancaccio era un santo e si poteva permettere certi gesti, noi siamo solo poveri preti comuni, da cui non si può pretendere il martirio. Ecco: se passa questa versione, la testimonianza di Puglisi resterà in una nicchia».


«Don Puglisi beato e le nostre omissioni»

di Luigi Ciotti (Corriere della Sera, 25 maggio 2013)

«Era uno che non si era incanalato, che faceva di testa sua»; «Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada... Martellava e rompeva le scatole». Queste parole di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Drago, mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, basterebbero a spiegare, nella loro rozza schiettezza, perché don Pino Puglisi è stato ucciso. Ma sono molto lontane dal dire chi davvero fosse don Pino Puglisi.

Come tutte le persone restie a fare della propria coscienza un luogo di eterna mediazione e contrattazione, Puglisi imprimeva a tutto ciò che faceva il senso della ricerca e del bisogno di verità. Se era un «rompiscatole», era perché le scatole le rompeva innanzitutto a se stesso, perché non si accontentava di «fare», ma voleva fare bene, con rigore, coerenza e serietà. Il primo aspetto che salta agli occhi è quello dell’educatore.

Don Puglisi aveva un talento raro nell’educare. Il che significa che il suo insegnamento era fondato sull’ascolto e sul comportamento, più che sulle parole. Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere. Che tutto ciò portasse a esiti diversi dall’abbracciare la fede, non era affatto per don Puglisi segno di sconfitta... Molti hanno cercato di dare una definizione all’attività pastorale di don Pino.

Voglio sottolineare come la definizione «prete antimafia» sia sbagliata non solo perché ogni definizione, sia pure attribuita con le migliori intenzioni, impoverisce la complessità di una vita. Ma perché Puglisi aveva capito che il problema non è tanto la mafia come organizzazione criminale (se così fosse basterebbero la magistratura e le forze di polizia) quanto la mafiosità, il mare dentro cui nuota il pesce mafioso.

L’assassinio di don Pino Puglisi ci ricorda che sconfiggeremo le mafie solo quando saremo capaci di fare pulizia attorno e dentro di noi, quando supereremo gli egoismi, i favoritismi, i privilegi e l’inevitabile corruzione che questo modo d’intendere la vita porta con sé. Solo quando avremo il coraggio di riconoscere anche le nostre responsabilità non solo dirette ma indirette, riferibili a quel peccato di omissione che consiste nell’interpretare in modo restrittivo e formale il nostro ruolo di cittadini. In tal senso la beatificazione di don Pino Puglisi è, paradossalmente, una «spina nel fianco» per tutti noi.


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