D’Alema gioca d’anticipo e lancia
l’antiberlusconismo per le primarie
di MARCELLO SORGI (La Stampa, 11/10/2009)
Dalla togliattiana svolta di Salerno del 1944, che servì a riconoscere la legittimità della monarchia e del governo Badoglio, il Pci, Pds, Ds e ora Pd, ci ha abituato a repentini cambi di rotta, brusche accostate e improvvise virate. Per questo, non può stupire l’intervista al Riformista con cui ieri Massimo D’Alema, il «líder Máximo» che tra l’altro vanta grande esperienza marinara, ha chiesto le dimissioni di Berlusconi, a soli tre giorni dalle prime reazioni del suo partito alla sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, mirate a dire che il presidente del Consiglio poteva e doveva andare avanti, purché tornasse a mostrare il rispetto dovuto al Capo dello Stato, e si rassegnasse ad affrontare i processi penali che lo aspettano, senza attaccare la magistratura.
Ieri invece, alla vigilia della Convenzione democratica di oggi, che dovrà prendere atto dei risultati precongressuali favorevoli al cambio di segreteria a favore di Pierluigi Bersani, e nello stesso indire le primarie in cui il segretario uscente Dario Franceschini proverà a prendersi la rivincita, D’Alema se n’è uscito con un attacco frontale al premier e al suo partito. Ha ricordato che «Berlusconi non è perseguito per reati politici o perché è un leader politico», ma «per reati comuni». Ha aggiunto che «in un Paese democratico un leader che si trova in queste condizioni viene sostituito». E ha concluso che se questo non avviene è perché «il partito di Berlusconi è “suo” in senso proprietario».
Posizioni durissime, eppure logiche, in bocca a uno dei maggiori esponenti dell’opposizione. Ma non si capisce perché soltanto martedì pomeriggio, i dirigenti del Pd, uno dopo l’altro, si alternassero ai microfoni dei telegiornali, per concedere a Berlusconi, pur tornato ad essere un normale inquisito, di andare avanti.
La spiegazione di questo cambio di linea è legata agli sviluppi della situazione interna del Pd. D’Alema, e come lui Franceschini, Fassino e tutti gli altri che hanno preso la parola dopo la sentenza della Consulta, sanno benissimo che Berlusconi non si dimetterà certo perché glielo chiede il Pd. Ed è per questo che, accortamente, hanno evitato di chiederglielo martedì. Un ragionamento del genere, ancorché non condivisibile fino in fondo, è abbastanza comprensibile per iscritti e militanti del Pd, tutti più o meno professionisti della politica, che ne conoscono i limiti e le arguzie necessarie.
Ma i dirigenti del Pd, divisi in tre squadre diverse, che si fronteggeranno tra poco nella votazione finale, sanno anche bene che, un conto sono i militanti, e un altro il «popolo delle primarie». Un «popolo» molto più radicalmente ed esplicitamente antiberlusconiano, che voterà, il prossimo 25 ottobre, insieme con la testa e con la pancia, misurando la credibilità dei candidati quasi soltanto dal tasso di odio che saranno in grado di esprimere contro il Cavaliere.
Ecco perché, oggi, alla Convenzione democratica, tre candidati assai diversi tra loro, come Bersani, Franceschini e Marino, daranno vita a una nobile gara di antiberlusconismo, tutta rivolta al popolo di elettori e simpatizzanti che tra due settimane entrerà nei gazebo delle primarie. E perché, intuendo tutto questo, D’Alema, che conosce i suoi polli, s’è schierato prima del tempo.