Galileo, precursore di Kant e delle neuroscienze
A 450 anni dalla nascita un saggio ne svela un aspetto inedito: così fondò la psicologia della percezione visiva
di Piero Bianucci (La Stampa, 27/08/2014)
Tutti conoscono Galileo astronomo, fisico, padre del telescopio, saggista brillante, tanto che Italo Calvino lo giudicò il più grande scrittore italiano, alla faccia di Manzoni. Piuttosto noto è il Galileo abile disegnatore, buon dilettante di musica, poeta burlesco, critico letterario che si esercitò su Dante, Ariosto e Tasso. Ora Marco Piccolino, Università di Ferrara, e Nicholas Wade, University of Dundee, UK, ci presentano un Galileo neuroscienziato, fondatore della psicologia della percezione visiva.
Mentre si celebrano i 450 anni dalla nascita e Pisa gli dedica la mostra “Galileo: il mito tra Otto e Novecento”, aperta fino al 30 ottobre, quella proposta da Wade e Piccolino nel saggio “Galileo’s Visions” (Oxford University Press, 336 pp., 39,99 sterline) sembra una prospettiva eccentrica. Ma non è così se ricordiamo che Galileo dovette affrontare avversari scientifici che si rifiutavano di mettere l’occhio al telescopio sostenendo che quello strumento creava solo giochi di luce ingannevoli. Per difendersi dagli aristotelici, Galileo fu il primo a diffidare dei propri sensi e dello strumento con cui sondava l’universo. Gli era così chiaro che i sensi sono filtri inevitabili tra noi e la realtà, che possiamo considerarlo un precursore delle categorie kantiane. Su questo punto filosofico, quello delle “sensate esperienze”, “Il Saggiatore” ha pagine illuminanti.
Galileo osserva le macchie solari e si rende conto che sembrano nere non perché lo siano davvero ma per il forte contrasto con la superficie abbagliante del Sole. In effetti, scrive Galileo a Welser nel 1612 polemizzando con il gesuita padre Scheiner, le macchie solari sono più luminose della Luna piena. La loro oscurità è una illusione mentale: i nostri occhi funzionano per comparazione, non per valori di luminosità assoluti, cosa che la fisiologia moderna spiegherà tre secoli dopo.
Un altro inganno percettivo fa sì che la falce lunare sembri più grande del disco effettivo della Luna, che è in ombra ma si indovina grazie alla “luce cinerea” riflessa dalla Terra. Il fenomeno, detto irradiazione, riguarda anche la “grandezza” delle stelle, parola oggi usata per indicare la loro luminosità ma che in origine si riferiva al fatto che vediamo una stella tanto più grande quanto più è luminosa.
Come al solito Galileo affrontò la questione della grandezza (estensione angolare) delle stelle in modo sperimentale ma per finalità teoriche. Se la Terra gira intorno al Sole le stelle devono mostrare un moto di parallasse annuale. Questa parallasse non si osservava, e ciò dava un forte argomento ai tolemaici. Galileo pensava che la diversa luminosità delle stelle fosse dovuta alla distanza più o meno grande. In ogni caso le stelle dovevano essere lontanissime e non incastonate nella sfera delle stelle fisse, tutte alla stessa distanza, come voleva la teoria geocentrica di Tolomeo. Di qui la difficoltà di misurarne la parallasse, troppo piccola per gli strumenti dell’epoca.
Ciò premesso, Vega doveva essere una stella abbastanza vicina in quanto è tra le stelle più luminose. Galileo provò a occultarla usando una cordicella e trovò che il suo diametro angolare era inferiore a 5”, cioè 24 volte meno di quanto supponeva Tycho Brahe. Poiché una stella brillante, e dunque vicina, risulta così piccola, la sua distanza doveva essere tale da rendere impossibile misurarne la parallasse. Ora sappiamo che tutte le stelle restano puntiformi per quanto le si ingrandisca con i più potenti telescopi. Il loro diametro apparente è sotto il millesimo di secondo d’arco.
Chiudiamo tornando alla Luna. Sappiamo dagli astronauti che il suo colore varia dal nero della lavagna al grigio del cemento. Eppure in cielo pare bianca. Perché?
Nel 1929 lo psicologo tedesco Adhémar Gelb l’ha spiegato con un esperimento. Sospese un disco nero in una stanza buia e puntò su di esso un faro nascosto all’osservatore. Poiché la luce era ben collimata sul bersaglio nero, il resto della stanza rimaneva in ombra. In queste condizioni, il disco nero appariva bianco. Se però un foglietto di carta bianca veniva posto vicino al disco dentro il fascio di luce, di colpo il disco sembrava grigio. Togliendo il pezzo di carta, il disco nero ridiventava chiaro.
In sintesi: la Luna è scura come una lavagna ma la piccola parte di luce solare che riflette è un miscuglio di colori che i nostri occhi vedono bianco. Per completare il discorso occorre però ricordare un argomento che Galileo sviluppa nel “Dialogo dei massimi sistemi”: la diffusione della luce del Sole da parte della Luna avviene perché la sua superficie non è liscia come volevano gli aristotelici ma scabra. Sono le asperità lunari, orientate nelle più varie direzioni, a riflettere la luce solare. Galileo vide le montagne della Luna al telescopio, ma le avrebbe scoperte anche solo con gli occhi della mente.