Il Quirinale tra moniti e auspici
Editoriale (La Stampa, 2/1/2010).
La telefonata di apprezzamento fatta subito giungere al Quirinale da Silvio Berlusconi. Il sostegno convinto dei presidenti di Camera e Senato. L’elogio dei leader di partito che, sottolineando questo o quell’aspetto del discorso del Capo dello Stato, hanno voluto far sapere di esser pienamente e totalmente d’accordo con lui. Eppure, proprio gli «uomini del Palazzo» avrebbero dovuto cogliere, nella fredda e piovosa sera dell’ultimo dell’anno, l’inattesa consonanza di toni che ha segnato i discorsi pronunciati a poche ore di distanza l’uno dall’altro da due uomini certo assai diversi per vocazione, provenienza e ruolo.
Il primo, Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, è entrato a ora di cena nelle case degli italiani con un monito chiaro e netto: «Si dovrebbero ormai, da parte di tutti, contenere anche nel linguaggio pericolose esasperazioni polemiche; si dovrebbe contribuire a un ritorno di lucidità e di misura nel confronto politico». Il secondo, Angelo Bagnasco, cardinale e presidente della Cei, aveva fatto risuonare poche ore prima nella chiesa del Gesù a Genova, la sua critica severa verso «lo spettacolo triste e preoccupante della litigiosità politica, fino al metodo dell’insulto sistematico e dell’odio personale e violento. Tutti noi sappiamo che la gente non si merita questo».
Nelle parole dell’uno e dell’altro si può ipotizzare sia riflesso il senso comune, il sentire degli italiani, di tutti gli italiani, laici e cattolici, credenti e non credenti, giovani e anziani, del Sud o del Nord del Paese. E se questo è lo spirito che serpeggia dalla Sicilia al Trentino, allora la classe politica e i gruppi dirigenti in senso lato possono anche continuare a manifestare apprezzamenti che i fatti dimostrano insinceri e perseverare nel predicar bene per poi razzolar male: ma sappiano che la critica del Capo dello Stato e del capo dei vescovi italiani era ed è rivolta a loro. E comincino a riflettere sul fatto che un 2010 simile al 2009 - per inconcludenza, rissosità e violenza verbale - potrebbe trasformarsi in una faccenda pericolosa e seria: infatti, il vento dell’antipolitica che ciclicamente spazza questo Paese, pare poter assumere - è già accaduto a Milano - un profilo assai meno giocoso dei «girotondi» di ormai antica memoria.
È anche per questo che l’apprezzato «guardiamo con più fiducia del 31 dicembre scorso al nuovo anno» pronunciato da Giorgio Napolitano giovedì sera, è sembrato somigliare a un sospiro liberatorio dopo mesi e mesi di guerra: una guerra che in Italia ha lasciato sul terreno centinaia di migliaia di disoccupati, aziende piccole e medie triturate dalla crisi, sfiducia crescente nei giovani, distacco e rabbia - quando appunto non odio, come a Milano - verso una classe politica impegnata a proclamare piuttosto che a fare. E soprattutto a litigare, piuttosto che a dialogare. Quello del presidente, in definitiva, è parso più un auspicio che un annuncio: ma che l’auspicio di realizzi, ora non dipende da lui ma dal «cambio di stagione» che il Paese aspetta da tempo e ora - anzi - comincia a reclamare.
L’agenda è nota, e Napolitano l’ha rielencata: sostegno ai più deboli, lotta alle nuove povertà, ripresa dell’economia, attenzione particolarissima al Sud e ai giovani («Non possiamo correre il rischio che non vedano la possibilità di realizzarsi e di avere una vita degna nel loro Paese»). E poi, certo, le riforme istituzionali, «che non possono essere bloccate da un clima di sospetto tra le forze politiche e da opposte pregiudiziali». Quel che il presidente ha fatto intendere, è che è giunto il momento del fare dopo la lunga stagione del proclamare. Fare le riforme: sociali e istituzionali. E perfino innovare nella sua seconda parte la Costituzione, «che può esser modificata secondo le procedure che essa stessa prevede».
È parsa insomma quasi una sfida quella che Napolitano - e per altri versi il cardinal Bagnasco - hanno proposto a maggioranza e opposizione: recuperare un clima di confronto appena appena civile e operare, finalmente, per recuperare fiducia, credibilità e consenso tra la gente. Perseverare in una guerra senza più senso a colpi di termini e accuse ripescate direttamente dal secolo scorso - da «comunista» a «piduista» - rischia di essere non solo inutile, ma ormai perfino potenzialmente pericoloso. Nella notte dell’ultimo dell’anno, l’allarme è stato autorevolmente lanciato: e con tale nettezza di toni e tale chiarezza di termini, che nessuno potrà poi dire che non aveva capito...