INTERVISTA.
«La catastrofe è un’altra schiavitù. E abbiamo bisogno di nuova liberazione, fatta da popoli amici». Parla il poeta Métellus
Haiti: il dolore che chiede riscatto
«Il mio Paese era già molto malfermo, sul piano della democrazia, del diritto al cibo, della condizione dei bimbi... In questi casi, si pensa che almeno la natura risparmi la gente E invece no. Per questo occorre dal mondo uno sforzo in più per aiutarci»
DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ (Avvenire, 16.01.2010)
« Haiti non è soltanto in ginocchio. Siamo tutti come stesi a terra accanto alle vittime». Il poeta e drammaturgo haitiano Jean Métellus risiede in Francia, dove trovò riparo dalle convulsioni politiche della terra natia. Ma è a questa che ha dedicato negli anni i suoi poemi più noti, tradotti anche in Italia e per i quali ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi come il Gran Premio Senghor. In queste ore, con un comitato di sostegno organizzato assieme ad altre personalità della diaspora haitiana, lo scrittore settantenne resta in prima linea a favore dei sinistrati.
Come ha appreso?
«Alla televisione. Ed è bastato già questo a suggerirmi tutta la gravità, dato che nessuno ha potuto scrivermi via internet o chiamarmi. Provo un’immensa tristezza, una tristezza incommensurabile.
Non mi attendevo che Haiti potesse essere colpita proprio adesso. Il Paese era già estremamente malfermo, da quasi tutti i punti di vista. Sul piano della democrazia, della vita quotidiana, del diritto al cibo, della condizione dei bambini. In questi casi, si pensa che almeno la natura possa risparmiare la gente. E invece no. La natura è cieca, colpisce dove vuole».
Che messaggio lancia all’Italia e alla comunità internazionale?
«Vorrei che la comunità internazionale comprendesse il dolore che colpisce 10 milioni di haitiani.
Perché - contando la diaspora - siamo in 10 milioni a soffrire nel corpo. Occorre dare sollievo a questa pena senza fondo e pensare presto alla ricostruzione del Paese. Una ricostruzione nella durata. Per il mondo, è il momento di mostrare la sua solidarietà».
Haiti e il resto del mondo. Una storia e tanti contraccolpi...
«In passato, la comunità internazionale si è manifestata ogni volta che Haiti ha avuto una nuova ricaduta. Ma questa volta è diverso. Il mondo deve rendersi conto che il dolore che ci ha colpito è di un altro ordine rispetto a ciò che abbiamo conosciuto in passato. Occorre uno sforzo più grande di quanto si sia mai fatto prima».
Haiti ha saputo dare molto al mondo e alla cultura...
«È proprio così. Gli haitiani sono rimasti sempre culturalmente aperti. Amo ricordare, ad esempio, quanto Haiti ha fatto fin dalle sue origini per la lingua francese. Fu Toussaint Louverture [principale artefice dell’Indipendenza haitiana, ndr] a introdurre l’uso del francese, scegliendo questa lingua per scrivere la Costituzione. Anche nel mondo francofono, pochi sanno che la prima Costituzione al mondo di una nazione nera è stata scritta in francese. Anche la proclamazione dell’Indipendenza fu scritta in francese. E fu anche grazie al voto di Haiti alla Società delle nazioni che il francese rimase una lingua pienamente internazionale ».
L’Indipendenza di Haiti ha ormai due secoli. La catastrofe equivale adesso a una sorta di nuova schiavitù?
«Sì, perché abbiamo bisogno oggi di una nuova liberazione, di una liberazione che giungerà solo grazie a tutte le nazioni amiche. Si tratta di una liberazione simbolica e tecnologica, certo, ma non per questo meno necessaria».
Lei giunse in Europa all’epoca del dittatore François Duvalier. Che legame ha mantenuto con Haiti?
«Ho sempre cercato di non dimenticare i tanti drammi successivi che hanno colpito il Paese. L’ho fatto attraverso i miei testi, non solo poetici. Ma col mio lavoro di scrittura ho anche cercato di magnificare Haiti, dato che questi drammi non hanno mai oscurato del tutto l’identità nazionale».
Un suo saggio parla di Haiti come «nazione patetica»...
«Sono stati gli uomini, con tutte le loro bassezze, a renderla patetica. Spesso, gli uomini giunti dall’estero. Mi riferisco all’Indipendenza che non venne riconosciuta da Napoleone, al debito che il Paese dovette contrarre per guadagnare il riconoscimento internazionale, a tutti i misfatti che le grandi potenze hanno ordito per reclamare indennità senza fondamento».
È stata anche la natura a rendere questo Paese estremamente invitante...
«È vero, è un Paese magnifico, ma la natura ci ha appena strappato una parte d’anima. La gente, in queste ore, invoca il cielo. Gli haitiani sono un popolo molto religioso. Ma per tanti, ciò che è accaduto non può essere compreso».
In mezzo alle macerie, si può già pensare a un riscatto?
«È la prima parola che dovremo inseguire. Ci vuole un sussulto. Già storicamente, Haiti ha rappresentato molto per i popoli alla ricerca di un riscatto. Anche se questo passato glorioso è stato spesso disprezzato, soprattutto dalle grandi potenze. Quella di Haiti è una storia che resta in gran parte da scoprire e che ancor oggi molti si rifiutano di comprendere. Ma a tanti giovani, adesso, questa storia servirà per il riscatto».
I suoi poemi accompagnano attualmente una mostra fotografica alle porte di Parigi dedicata alla gente di Jacmel, la sua cittadina natia sulla costa meridionale, anch’essa duramente provata in queste ore. Il senso della mostra, adesso, cambia?
«È una mostra che parla del dramma di Haiti. Il suo senso non cambia, ma è stato accentuato a dismisura. Chi ha visitato la mostra in queste ultime ore ha persino creduto talora a un omaggio posteriore alla tragedia«.
In questi casi, la poesia serve ancora a qualcosa?
«Continuo a pensare che la poesia può aiutare persino dopo una catastrofe simile. Pure la poesia può aiutare i giovani a trovare l’energia per rialzare la testa».
Rientrerà?
«Non appena possibile».