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FILOLOGIA E TEOLOGIA: "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO" NON E’ L’EVANGELO!!! E la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas"), l’amore evangelico ("agàpe"), non è il "caro-prezzo" del Dio "Mammona" ("Deus caritas est", Benedetto XVI, 2006)!!!

PER CARITÀ!!! Prof. Giovanni Reale, si svegli dal sonno dogmatico!!! L’amore evangelico è "charitas", non "caritas"!!! Alcune note - a cura di Federico La Sala

lunedì 1 febbraio 2010 di Federico La Sala
[...] Credo che l’ultima enciclica che Giovanni Paolo II avrebbe scritto, se fosse sopravvissuto, sarebbe stata proprio quella sull’amore. E giustamente la prima enciclica di Benedetto XVI si intitola Deus caritas est. Penso che questa sia la migliore prova delle precise intenzioni di Benedetto XVI di voler fermamente proseguire, con il suo pontificato, sulla linea spirituale e morale del suo grande predecessore [...]
ECCLESIA DE EUCHARISTIA vivit (Giovanni Paolo II, 2003).
CONTRO LA FEDE (...)

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>Giovanni Reale una vita nel segno di Platone. Lo storico che insegnò la filosofia dei classici a intere generazioni è morto ieri all’età di 83 anni (di Antonio Gnoli)

giovedì 16 ottobre 2014

Lo storico che insegnò la filosofia dei classici a intere generazioni è morto ieri all’età di 83 anni

Giovanni Reale una vita nel segno di Platone

di Antonio Gnoli (la Repubblica, 16.10.2014)

SEMBRAVA un uomo di altri tempi. Pingue, loquace, cerimonioso. Un’eleganza antica. Cappello compreso, immancabile su una testa calva, dalla fronte spaziosa. Innamorato del proprio mestiere di storico della filosofia. Quando ci vedemmo l’ultima volta, circa un anno fa, in un albergo romano, per parlare di sé e della meravigliosa impresa editoriale dei suoi classici della filosofia (raccolti e pubblicati da Bompiani), mi sembrò che fosse cresciuta in lui la consapevolezza di un lavoro indispensabile. L’idea che avesse realizzato qualcosa di importante per la cultura di questo paese: sia sul piano del pensiero (soprattutto filosofico), sia su quello dell’arte (spesso, negli ultimi tempi, in coppia con Elisabetta Sgarbi).

Giovanni Reale è morto abbastanza repentinamente, a 83 anni, per non lasciarci in qualche modo disorientati. Restano i suoi lavori. Quelli di manualistica, realizzati in parte con Dario Antiseri; i commenti - spesso magistrali - alle opere dell’antichità, in particolare a Platone il suo filosofo di riferimento. Da buon cattolico egli difese le ragioni della vita. Nel dialogo, intenso, che svolse da credente con Umberto Veronesi, lo scienziato non credente, (Responsabilità della vita è il libro frutto del loro confronto) si coglie il desiderio dialettico di capire e di entrare nelle convinzioni dell’altro, con civiltà e ragione.

Negli ultimi anni l’accademico di vaglia - che aveva insegnato in varie università europee, ma prevalentemente alla Cattolica di Milano - lasciò uno spazio crescente alla riflessione più attuale, legata ai temi urgenti: come pensare il fine vita e come difenderlo dai pregiudizi ideologici. Di qui le tormentate considerazioni e il rispetto con cui sentiva di dover affrontare i casi di Welby e di Eluana. Significative furono a questo riguardo - in una lettera inviata a Mina Welby - le ragioni, in qualche modo laiche, di un credente che respingeva l’accanimento terapeutico e lasciava al malato la decisione di come morire.

Sospetto che in quella maturazione si affacciasse il bisogno di tornare ad alcuni motivi della filosofia antica: le virtù del bene e del bello, l’armonia, l’eros inteso come slancio verso un ordine superiore, e l’assoluto come principio da imitare nella consapevolezza che mai l’umano potrà pienamente soddisfare.

Per questo tra Aristotele e Platone egli scelse Platone. Sia come guida spirituale, che come pratica etica e conoscitiva. Amava Platone da platonico, quale in fondo riteneva di essere. Non che Aristotele non fosse altrettanto fondamentale. Ricordo infatti la sua traduzione e il commento alla Metafisica, dove venivano colte le intenzioni sistematiche dello stagirita. Per ogni studente che si avventurava, con qualche dubbio, nella selva di quel testo, Reale era un saldo punto di riferimento filologico. Come lo fu sull’intera filosofia antica. Eppure, era Platone il filosofo al quale sempre tornava.

Reale aveva in qualche modo sposato l’interpretazione fornita dalla “scuola di Tubinga”, secondo la quale il filosofo andava letto e interpretato soprattutto alla luce delle dottrine non scritte. Quel mondo misterioso, impalpabile, iniziatico che Platone costituì sotto il nome di Accademia, affascinò il pensiero di Reale. Quasi che nella scena che si profilava si potesse leggere lo scontro drammatico tra la scrittura e la vivente dialettica. Non era questa, in fondo, la misura stessa con cui Socrate aveva esaltato la forza della parola orale contro quella scritta?

Certo, diverse e fondate furono le critiche a quel metodo di lavoro che privilegiava un inse- gnamento non scritto, forse perfino segreto, ma del quale restano poche e indimostrabili tracce. Ma ad affascinare Reale contribuì la constatazione che Platone fosse al centro di una rivoluzione epocale che in qualche modo coinvolgeva perfino le nostre esistenze. Anche noi, come lui, dentro un’epocale trasformazione.

Per quanto riguarda Platone c’era il passaggio tutt’altro che indolore da una civiltà orale, fondata sul mito e l’immagine, a una civiltà della scrittura sorretta dall’argomentazione razionale. Cosa avrebbe guadagnato e perso l’uomo greco con questa rivoluzione? Si sarebbe staccato dalla seduzione del fantastico e dalla bellezza, anche tragica, dell’epico per abbracciare qualcosa che, con la forza del solo Logos, avrebbe segnato l’intero Occidente. Una vittoria che poteva vestire i panni della sconfitta o viceversa: una sconfitta che si sarebbe potuto leggere come una vittoria.

Questa era la scena. Platone ne fu pienamente consapevole e sebbene non volle rinunciare del tutto a ciò che si stava abbandonando, al tempo stesso, dovette farsi interprete di quel nuovo mondo che avanzava e che prese il nome di metafisica. I suoi scritti decretarono che si potesse e dovesse pensare non più per immagini ma per concetti. La sua teoria delle idee fu, secondo Reale, l’approdo naturale a un modo nuovo di affrontare il tema della verità.

Platone colse i limiti della scrittura, come alcuni interpreti hanno dichiarato rifacendosi alla Lettera VII. Dopo lunghe discussioni, quel testo fu attribuito a Platone ed è considerato - insieme al Fedro - il documento più esplicito circa i dubbi che Platone formulò nei riguardi della parola scritta, incapace di esprimere tutta la profondità del pensiero filosofico. Peccato che quelle cose Platone le abbia pensate e dette scrivendo. Fu una delle obiezioni forti mosse sia alla scuola di Tubinga che a Reale. Quest’ultimo non se ne preoccupò più di tanto, continuando a pensare che i due volti di Platone - il corpus degli scritti e l’accademia dove trionfò l’oralità della dialettica - fossero entrambi indispensabili per comprenderne il messaggio filosofico.

Reale è stato un curioso metafisico nel tempo del tramonto della metafisica. Negli ultimi anni, si interessò alla filosofia di Martin Heidegger. C’è bisogno di idee forti, altro che pensiero debole, aveva sostenuto, vedendo crescere l’interesse attorno alla figura di questo controverso pensatore. Contrariamente a quello che in genere si pensa, e cioè che Heidegger sia un antimetafisico, Reale sostenne che egli sia stato uno dei più grandi metafisici della storia del pensiero occidentale.

Anche sulla religiosità Reale intuì il profondo coinvolgimento di Heidegger. Non so quanto fosse la sincera e tormentata passione del credente e non piuttosto il tentativo di ricondurre la teologia alla filosofia, ma è certo che in quella lettura, a nostro avviso poco plausibile, ci fosse una sintonia profonda, quasi un sovrapporsi di identità. La stessa, anche se in misura più lieve, che per tutta la vita ha riguardato la sua relazione ventriloqua con Platone.

Mi chiedo se quest’uomo affabile, cerimonioso e non privo di una qualche punta di vanità non abbia con la sua lettura dato vita, involontariamente, a una specie di “Zelig” della filosofia, tanto più efficace quanto più capace di adattare quel sistema complesso di idee platoniche al mondo contemporaneo. Naturalmente non c’è una risposta. Ogni uomo è la sua terra. Ed è giusto rendere omaggio alla sua fedeltà all’antico. E al suo sogno platonico.


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