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FILOLOGIA E TEOLOGIA: "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO" NON E’ L’EVANGELO!!! E la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas"), l’amore evangelico ("agàpe"), non è il "caro-prezzo" del Dio "Mammona" ("Deus caritas est", Benedetto XVI, 2006)!!!

PER CARITÀ!!! Prof. Giovanni Reale, si svegli dal sonno dogmatico!!! L’amore evangelico è "charitas", non "caritas"!!! Alcune note - a cura di Federico La Sala

lunedì 1 febbraio 2010 di Federico La Sala
[...] Credo che l’ultima enciclica che Giovanni Paolo II avrebbe scritto, se fosse sopravvissuto, sarebbe stata proprio quella sull’amore. E giustamente la prima enciclica di Benedetto XVI si intitola Deus caritas est. Penso che questa sia la migliore prova delle precise intenzioni di Benedetto XVI di voler fermamente proseguire, con il suo pontificato, sulla linea spirituale e morale del suo grande predecessore [...]
ECCLESIA DE EUCHARISTIA vivit (Giovanni Paolo II, 2003).
CONTRO LA FEDE (...)

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> PER CARITA’!!! L’amore evangelico è "charitas", non "caritas"!!! --- La "Storia della filosofia greca e romana" di Giovanni Reale.

giovedì 1 novembre 2018

Ma che bella storia d’amore

Filosofia antica. Torna in libreria l’opera di Giovanni Reale: non è un arido manuale ma il resoconto di un’avventura, il diario di un’appassionata ricerca durata una vita

di Maria Bettetini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.10.2018)

Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, Bompiani, Milano, pagg. 2.816, € 70

«Anche in questo i Greci sono stati e restano maestri: si è filosofi solo se e finché si è totalmente liberi, ossia solo se e finché, in assoluta libertà, si contempla o si cerca il vero come tale, senza ulteriori ragioni predeterminanti». Qualcuno forse giudicherà ingenua questa affermazione, tratta da uno dei saggi che accompagnano la Storia della filosofia greca e romana di Giovanni Reale, soprattutto leggendo il seguito: «Conoscendo in modo disinteressato, l’uomo si accosta alla verità, e in questa maniera realizza la sua natura razionale al più alto grado, e di conseguenza raggiunge la felicità».

In uno dei miei primi interventi in pubblico, tanti anni fa, pronunciai parole simili, libertà, felicità, verità. Ricordo alcuni sguardi ironici, e perfino una voce che componeva una poesiola, taratà taratà verità. Ero di certo ingenua nell’esposizione, incapace del giusto pathos. Ma avevo alle spalle anni di frequentazione con l’uomo più entusiasta mai conosciuto per la ricerca filosofica, il maestro che aveva trasformato studi da «museo archeologico», come usava dire, in ricerca appassionata, anzi, «innamorata». Come tutti i grandi, aveva le sue idiosincrasie, ma il dono di trasformare pagine antiche in questioni di vita o di morte è stato incredibilmente fecondo. Per questo, quando si è pensato di pubblicare la sua Storia della filosofia greca e romana in un unico volume nella collana da lui fondata, il Pensiero Occidentale, nessuno ha sollevato obiezioni.

Perché non si tratta di una storia della filosofia, piuttosto del resoconto di un’avventura, del diario di una ricerca. Senza nulla togliere all’attenzione filologica e ai rimandi bibliografici, chi leggesse questo libro come si affronta un arido manuale perderebbe molto. Giovanni Reale infatti, nell’opera per cui è più conosciuto nel mondo non solo accademico, ha lasciato traccia dei suoi studi, certo, ma anche della sua stessa vita.

Mi sono innamorato della filosofia, così aveva intitolato l’ultima delle sue fatiche e così dichiarava con fierezza quando gli si chiedeva da dove fosse partita la sua avventura. Proprio questo amore lo aveva condotto a una passione non secondaria, la divulgazione, la trasmissione dei testi e dei contenuti lasciati dai grandi pensatori. La riproposizione della Storia della Filosofia Greca e Romana vuole essere quindi un omaggio al suo ideatore e infaticabile sostenitore.

Da ragazzo, Giovanni Reale voleva dedicarsi alla filosofia contemporanea, ma il suo maestro Francesco Olgiati lo inviò invece a Marburgo per studiare quella antica, intuendo l’importanza del mondo greco e romano per la cultura italiana. Se il motto del neokantismo era stato «Torniamo a Kant», l’imperativo per il giovane Reale fu «Torna ad Atene!»: un’espressione che gli piaceva molto ricordare e ripetere.

I primi lavori furono dedicati ai seguaci di Parmenide, poi venne la fatica della Metafisica di Aristotele, in polemica con chi voleva fare dello Stagirita un autore destrutturato, già quasi postmoderno. La vis che poi percorrerà tutti i lavori di Reale è già in ogni pagina del commento alla Metafisica, le idee di fondo sono pedagogicamente riproposte, la scrittura vivace cattura il lettore. Tutto questo si ritroverà fin dalle prime edizioni delle diverse storie della filosofia, dove emergerà il personaggio centrale, il protagonista di quello che si rivela sempre più un romanzo piuttosto che un manuale. «Sembra di leggere un giallo», mi diceva ai tempi dell’università una compagna di studi: in attesa dell’arrivo di Platone, tutto è come sospeso, dopo di lui, le sue tracce brillano da Aristotele agli ultimissimi neoplatonici. Platone, l’autore della «seconda navigazione»lo scopritore del soprasensibile, colui che ha aperto al mondo la via di un «oltre», di un mondo che è altro rispetto alla materia. Come chi fatica con i remi, felice si abbandona alla forza del vento se impara a usare le vele, passando dalla prima alla seconda navigazione (la metafora è nel Fedone), così al pensatore si spalanca il respiro dell’oltresensibile, che gli permette di comprendere senza fatica tanti perché. Gli anni Ottanta vedranno poi sorgere passione nella passione, con la grande battaglia per il «Platone non scritto», testimoniata anche in questo volume.

La passione platonica vira poi verso le opere del Santo vescovo di Ippona, Agostino. Siamo alla «terza navigazione», l’oltresensibile ancora studiato dalla ragione si apre agli aspetti dell’imponderabile, di ciò che può essere oggetto solo di fede. In verità, nella vita degli uomini, così come nelle opere di Agostino, non tutto è così chiaramente definibile e individuabile come materia, logos, misteri della fede. Ma l’avventura di Reale segue invece queste tappe con precisione matematica, e mentre difende il suo Platone non scritto, in contatto con la Scuola di Tubinga, con Hans-Georg Gadamer, con i traduttori ormai in arrivo da tutti i continenti, inizia a dedicare tempo e attenzione solo al vescovo di Ippona, in compagnia del quale desidera trascorrere gli ultimi anni della vita.

Anni incredibilmente fecondi: da Rusconi, che chiude l’attività editoriale di filosofia, al volgere del millennio le collane di Reale arrivano in Bompiani, e pubblicano in meno di quindici anni più di trecento libri mentre ne preparano decine tra contratti e lettere di intenti. Inoltre, Reale accanto alla cura per centinaia di titoli scriveva e pubblicava di arte, di Platone, di Agostino e della filosofia, la sua innamorata. Ora la Storia della Filosofia Greca e Romana troverà certo il favore delle migliaia di lettori che lo hanno incontrato al liceo, in università, o dopo, come studiosi, cultori, appassionati, curiosi. Benvenuti dunque in questa avventurosa storia d’amore.


Saggezza antica e moderna

di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28 novembre 2004)

Con la sua Storia della filosofia greca e romana Giovanni Reale ripropone per Bompiani, in una forma editoriale del tutto inedita, una revisione e un aggiornamento della sua classica Storia della filosofia antica (Vita e pensiero). Ottima l’idea di riproporla in dieci singoli volumi, uniti in cofanetto ma disponibili anche singolarmente a un prezzo contenuto: 9 euro l’uno. L’ipotesi enunciata nell’introduzione è assai forte: in Grecia è nato il pensiero filosofico, e non ci sono possibilità di ritrovarlo in nessun’altra civiltà. E l’atteggiamento speculativo, tipico dei greci, è frutto del dialogo. Oggi però l’atteggiamento dialogico potrebbe forse apparire in contrasto con quello speculativo, che tende a proporre teorie filosofiche in sé compiute?

«Direi di no - risponde Reale -, perché la “dialettica”, l’introduzione dell’”oralità dialettica”, sostituisce la precedente oralità che era “mimetico-poetica”, la ripetizione del poema in versi nel contesto di una cultura fatta per immagini e miti. I primi filosofi, quando hanno usato lo scritto, lo hanno fatto con pochi fogli di papiro su cui nasceva una discussione, il dialeghein: non un ripetere cose, ma il modo di arrivare alla determinazione di un concetto. Prendiamo Socrate. Uno dava una risposta a un certo problema e lui diceva “non basta quello che dici. Non potresti esprimermelo meglio?” E questo turbava moltissimo. Prima di allora bastava come risposta il verso di un poeta. Quando Socrate chiedeva “cos’è il bello?” e gli si rispondeva “una bella ragazza, un bell’uomo”, lui replicava: “no, non ti ho chiesto degli esempi, ma cos’è il bello”. Per arrivare a una determinazione del concetto, il dialogo è necessario».

La discussione era un vero e proprio costume per i greci, un costume filosofico che - come sostiene Pierre Hadot - era anche un modo di vivere. Secondo lei, proprio rispetto al dialogo, c’è una continuità fra la filosofia greca classica e quella delle “scuole” successive: stoici, scettici, ecc.? «Sì. All’interno delle scuole si coltivava il dialogo. E le varie scuole si confrontavano tra loro. Il caso più tipico di opposizione paradigmatica è quella fra epicurei e stoici».

Però mentre in Platone e Aristotele è più marcato l’atteggiamento speculativo, l’amore disinteressato per la conoscenza, invece per le “scuole” è l’aspetto etico ad assumere un’importanza decisiva: anche la logica, la fisica, la cosmologia ne sono subordinate. «Per il filosofo greco - aggiunge Reale - il problema di fondo era: come essere felice? L’eudaimonia è il motivo del suo impegno. Naturalmente l’eudaimonia è qualcosa di molto più forte ci ciò oggi si intende per felicità. Niente a che vedere col benessere. Per il greco, tu puoi essere felice se capisci il cosmo, se capisci chi sei e di conseguenza ti collochi in quel cosmo. Platone e Aristotele davano più peso concettuale alla struttura. Gli altri invece puntavano prevalentemente sull’effetto. Perché? Perché fino ad Aristotele c’era la polis, che per il greco era la struttura del vivere anche morale. Con Alessandro è stata distrutta la struttura in cui l’uomo greco viveva. C’è stato un ribaltamento di valori tale per cui andava tutto ricostruito. Per la prima volta la vita del singolo diventa emergente. Per Aristotele l’uomo è un animale politico. Non sei uomo se non sei nella polis. Poi al legame che una città stabilisce con gli uomini si sostituì il concetto di amicizia. É la dimensione soggettiva degli uomini che porta i problemi dell’individuo in primo piano. Fino ai primi del Novecento questo fatto spingeva ad avere una visione negativa di queste filosofie. Poi le cose sono cambiate. Io difendo anche Epicuro. La felicità per lui era assenza di dolore. Però diceva anche: “A colui a cui non basta ciò che è necessario, nulla mai basterà. E sarà un infelice”. Ciò indica la dinamica in cui si deve entrare per trovare la felicità».

In questo, in realtà, assomiglia molto agli stoici. «Certo. Gli stoici sono antitetici agli epicurei, ma dicono cose simili. Per esempio che ogni essere può essere felice anche dentro la più terribile macchina di tortura che un tiranno aveva inventato. La felicità in quest’ottica, non dipende dalle cose, ma dai rapporti in cui si pone nei confronti delle cose».

Questa idea della sopportazione paziente del dolore segna una continuità con il cristianesimo. Il concetto di eudaimonia, invece, non è in contrasto con esso? A contatto con il cristianesimo l’etica si allontana dall’eudaimonismo, come ha sostenuto Bentham fondando una forma di eudaimonismo molto diverso da quello degli antichi. «Diciamo che nella storia è cambiato anche il concetto di felicità - dice Reale -. Si è dimenticato che la felicità dipende da te, e non dalle cose. Felicità in greco si dice eudaimonia, deriva da eu-daimon, è felice colui a cui è toccato in sorte un buon demone. I presocratici rovesciano il punto di vista: il demone te lo scegli tu. Platone lo dice nella Repubblica: sei tu che scegli il tuo demone e la virtù non ha padroni. E non è difficile trovare alcune convergenze con il cristianesimo. Il concetto di felicità così come i greci lo hanno determinato è: tu sei felice se riesci a essere te stesso. Tutta la storia del platonismo dice tu non sei te stesso se non ti metti in rapporto con Dio».

Dunque, in che modo oggi possiamo dialogare con i classici del pensiero greco? «Oggi la filosofia si sta distruggendo con una formula di autofagia. Si ritira in una sorta di metalivello, indaga solo le caratteristiche formali facendo astrazione dal loro contesto. Invece con i greci la filosofia si chiedeva: come devi vivere per vivere bene».

É ciò che ha sostenuto anche un grande filosofo inglese, Bernard Williams: se oggi vogliamo avere una filosofia all’altezza dei problemi morali che la gente si pone, dobbiamo tornare ai greci e alla domanda su «come vivere». Però sostiene anche un’altra tesi, su cui lei probabilmente non è d’accordo: il motivo per cui si dovrebbe tornare ai greci non è che la gente oggi riflette di meno, ma che, al contrario, riflette di più. Le scelte di vita - negli studi, nel lavoro, nella vita affettiva - non sono più date per scontate come nelle generazioni precedenti. Prima la vita dell’individuo era in ampia misura predeterminata. Oggi invece in qualunque tappa della vita si è costretti a prendere delle decisioni, a porsi appunto la domanda di Socrate: come devo vivere? «Purtroppo oggi si pensa con la categoria del particolare - sostiene Reale -. Si è dimenticata la visione tipica della Grecia che era l’intero. La problematica dell’intero è quella che ti dà la cornice dei problemi. Oggi molti partono dal particolare e con il particolare colloquiano. Ma il particolare non ha la cornice dell’universale. Il problema difficile per i giovani è quello di elevarsi a questo livello. Quello che mi preoccupa nei giovani oggi è che non affrontano i problemi legati a questa dimensione più elevata. A me pare che con tutte le soddisfazioni che l’uomo di oggi ha, anziché sentirsi pieno si sente vuoto. Perché emerge ciò che manca. Molti dicono che è la scoperta della sofferenza ciò da cui si scappa di più. Gadamer dice che i giovani si drogano per quello. Nell’ultimo libro della Repubblica si parla già di sofferenza e di scelta delle altre vite possibili. La scelta delle vite successive peggiori è fatta da anime che non hanno sofferto».

Ma così sembra proprio che ci allontaniamo dall’eudaimonia. «No. Tu attraverso la sofferenza cresci. Non è lei che diventa padrona, ma tu di quella e arriverai al sapere. Al sapere non si accede se non soffrendo. Non è la felicità banale o edonistica del piacere, ma quella dello spirito dell’uomo che è capace di essere sofferente anche dentro. La cultura scientifica di oggi ti insegna a fare cose, quella umanistica aveva un altro scopo. Ti insegnava a diventare uomo. Marco Aurelio diceva: “Quando al mattino ti svegli e sei stanco devi dire a te stesso: alzati per compiere il tuo mestiere di uomo”. Il messaggio della mia opera è questo: guarda che la scienza ti insegna tante cose ma non a fare il mestiere di uomo».

Oggi però, se lei ha ragione, i giovani non solo non studiano il mestiere per diventare uomini, ma a quanto pare non si iscrivono neppure alle facoltà scientifiche. «Ai giovani abbiamo dato tutto tranne la capacità di affrontare i problemi. Alcuni hanno capito per intuizione che dalla scienza non viene la soluzione dei problemi. Io adoravo la matematica. Passavo le vacanze a risolvere i problemi del libro di algebra. Che la scienza sia uno degli strumenti più potenti che l’uomo ha messo in atto è fuor di dubbio. I giovani devono usarla in “giusta misura”, come i greci insegnavano. Ma la scienza non risolve tutti i problemi. Di certo non quelli ultimativi, che oggi vanno riproposti». E crede che i filosofi possano risolverli? «Sì».


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