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EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).

HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. Alcune note di Federico La Sala

(...) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (...)
lunedì 22 agosto 2011
[...] Nel 1933, il discorso del rettorato di Martin Heidegger è la ‘logica’ conseguenza dell’assassinio non solo del “Mosè della nazione tedesca” (come voleva Holderlin), ma del Mosè Liberatore e Legislatore dell’intera tradizione abramica (ebraismo, cristianesimo, e islamismo) ed europea. L’"Uno" di Mosè (“Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno”), come l’“uno”di Kant, diventa l’uno della monarchia prussiana prima (si cfr. la (...)

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> HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. ---- "Breve storia del verbo essere". Il titanismo di Heidegger (e di Quine) e il ridimensionamento di Aristotele, Kant e Chomsky (di Maurizio Ferraris).

sabato 5 giugno 2010


-  Breve storia del verbo essere [di Andrea Moro]

-  La meravigliosa debolezza del verbo essere

-  Per Heidegger su questa parola si basano tutte le lingue
-  Aristotele, Kant e Chomsky però la ridimensionano

-  di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 05.96.2010)

L’ontologia è la disciplina filosofica che si occupa dell’essere, ed è stata battezzata molto tardi (per i tempi quasi biblici della filosofia), all’inizio del Seicento, partendo da ontos, il genitivo del participio presente di einai, "essere" in greco. La sua domanda fondamentale, d’accordo con il filosofo americano Willard Van Orman Quine (1908-2000) è "Che cosa c’è?". In un certo senso Andrea Moro, professore di Linguistica generale presso il San Raffaele di Milano si mette a indagare il seguito della frase, non in Quine, ma in Ornella Vanoni e Gino Paoli: «C’è che mi sono innamorato di te», e si chiede che cosa esattamente significhi questo "C’è".

La sua scienza non riguarda gli enti, ma il verbo essere, e Moro propone ironicamente di chiamarla "einaiologia", da einai. Diciamo subito che, al di là della linguistica, l’einaiologia è utilissima per l’ontologia, e aiuta a liberarla da tante fisime, in particolare quella secondo cui il verbo essere sarebbe un verbo fortissimo, che, come una specie di Atlante, regge il mondo sulle proprie spalle.

La formula canonica del giudizio, S è p, un certo soggetto è un certo predicato, "il tavolo è nero", "Socrate è musico", porta in sé qualcosa del "fiat lux", della creazione del mondo. Heidegger scriveva con una certa ebbrezza che se nella lingua mancasse la parola "essere" non è che avremmo una parola in meno, non avremmo nessuna lingua. All’iperbole soggiaceva anche il solitamente sobrio Quine, perché alla domanda "Che cosa c’è?" rispondeva "C’è tutto", lasciando intendere che il verbo essere conferiva una esistenza, sia pure umbratile, a tutto quanto, compresi i ferri lignei e i rotondiquadrati. In questo titanismo si cela un retrogusto di prova ontologica, quasi che la copula è facesse esistere le cose, o quantomeno che nella terza persona dell’indicativo presente del verbo essere si nascondesse il segreto dell’esistenza.

Ed è qui che, a svegliare l’ontologia dal suo sonno dogmatico, interviene l’einaiologia. Prendiamo la frase "Vietato attraversare i binari". Se io metto "È vietato attraversare i binari" cambia qualcosa? No, il concetto resta tale e quale. Kant, nel dire che "essere" non è un predicato reale, bensì una posizione assoluta, ha messo tutti sull’avviso. Pretendere che l’essere aggiunga qualcosa a un concetto è un po’ come andare al bar e ordinare una birra piccola, chiara e reale: quell’ultima specificazione apparirebbe bizzarra e lascerebbe di stucco il barista. Che cosa cambia allora? È il tempo. Potrei mettere «era vietato attraversare i binari» (e ora non lo è più) o «sarà vietato attraversare i binari» (e non lo è ancora). Essere e tempo? Sì, proprio così, in Aristotele molto prima e molto meglio che in Heidegger: la copula "è" in S è p, non serve per far esistere le cose (al punto che se dicessi "Beato lui!" dovrei necessariamente supporre che il giudizio implichi "Lui è beato"), ma serve essenzialmente per marcare il tempo, nella fattispecie il presente.

Questo è il primo degli indebolimenti dell’essere a cui si impegna Moro, che però non si limita al recupero di Aristotele e Kant, ma ne propone un secondo sulla scia della linguistica di Noam Chomsky: il verbo essere è flessibilissimo, cioè, appunto, più debole di altri verbi.

In italiano, osserva Moro con una scoperta originale, in una sequenza sintagma nominale / verbo / sintagma nominale (in parole più imprecise nome / verbo / nome), il verbo si accorda sempre con il sintagma nominale di sinistra: si dice "Caino uccise Abele e Pinocchio", e non "Caino uccisero Abele e Pinocchio".

Quando però il verbo è l’essere, le cose vanno diversamente. Posso dire sia "Due foto del muro furono la causa della rivolta", sia "La causa della rivolta furono due foto del muro", dove il verbo si accorda con "due foto sul muro", il sintagma nominale di destra. Abbiamo dunque sia la frase copulare canonica, sia la frase copulare inversa, e questo appunto perché il verbo essere è molto più arrendevole degli altri.

Questa breve storia del verbo essere non è una storia, ma una teoria, però siamo contenti lo stesso. L’asimmetria tra il ruolo centrale degli enti (naturali, ideali, sociali) nella nostra vita e l’evanescenza del verbo essere ci fa toccare con mano, ancora una volta, la differenza tra ontologia, quello che c’è, e l’epistemologia, quello che pensiamo e diciamo a proposito di quello che c’è. Hanno sbagliato i filosofi a pretendere che l’essere costituisse il linguaggio o che il linguaggio costituisse l’essere. Niente di grave.

Proprio perché quello che c’è ha in una grande quantità di casi una bellissima autonomia rispetto a tutti i linguaggi e a tutte le teorie, ci può essere ontologia, che si chiede "Che cosa c’è?", e indaga gli enti (cioè in parole povere gli oggetti) in quanto possono anche rivelarsi indipendenti dalle nostre cogitazioni e formulazioni linguistiche. E ci può essere einaiologia (da intendersi come una branca dell’epistemologia), che studia frasi tutt’altro che trasparenti - anche dal punto di vista linguistico - come «C’è che mi sono innamorato di te».

*
-  BREVE STORIA DEL VERBO ESSERE
-  di Andrea Moro
-  Adelphi, pagg. 330, euro 20,80


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