La «Divina Commedia» : un’opera biologica e musicale
Il poeta Mandel’stam interpretò il capolavoro di Dante su base scientifica
di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 09.01.2011)
Il grande poeta russo Osip Mandel’-stam scrive il Discorso su Dante nel 1933, cinque anni prima di morire in un gulag presso Vladivostok. Come ogni saggio davvero innovativo, il suo (uscito solo nel ’ 67) non è equilibrato ed ecumenico, ma radicale e arbitrario; anche se l’arbitrio è sostenuto con una logica interna inesorabile. - per Mandel’stam, Dante deve essere anzitutto liberato dalla sua fama. Poeta difficile ma appagante per i suoi contemporanei, è stato poi sopraffatto dalle vaghezze dell’arcano e dall’ossessione esegetica: «Presi dalla grammatica scolastica e dall’ignoranza allegorica, abbiamo perso di vista le danze sperimentali della Commedia» . «Danza» è termine decisivo, che evoca sia la musica sia la fisica (le «danze» degli atomi) e si lega a un altro termine, «onda» , che - ricorda Mandel’stam - «permea tutta la nostra teoria del suono e della luce» .
La Commedia sarebbe così - nella sua essenza profonda - un incontro di musica e scienza, unificate e cadenzate dalla struttura rigorosa e flessibile, esatta e dinamica- dal tessuto «resistentissimo» e «liquido» , come fosse seta - del verso dantesco. La prospettiva musicale serve a mostrare come la narrazione lineare del poema (il «viaggio» col suo portato allegorico psicologico) sia inseparabile dalla sua orchestrazione; come ne sia, anzi, un’emanazione.
E’ così possibile, secondo l’uso romantico, astrarre da quel tessuto la singola «aria» di un personaggio (come fa Mandel’stam stesso nel paragonare la confessione di Ugolino a un lancinante largo per violoncello, fitto di chiaroscuri affettivi), ma non è possibile scorporarla dal suo fondale timbrico e tonale. Non a caso, viene evocato più volte il nome di Bach, come se Dante, al tempo in cui non esisteva l’organo sei-settecentesco - ma solo i suoi «prototipi-embrioni» -, ne impiegasse già la «potenza smisurata» e tutti i registri e colori. Qui- sviluppando Mandel’stam- ci si può spingere oltre. Il legame Dante-Bach non è infatti avvertibile solo nella comune concezione «contrappuntistica» e nell’equivalenza tra la terzina e il «fugato» , ma in una sorprendente omologia tra il Paradiso e l’ultimo Bach delle Variazioni Goldberg, dell’Offerta musicale e soprattutto dell’Arte della fuga.
I due universi condividono nell’insieme la struttura radiale (evidenziata da Glenn Gould nelle Goldberg) e la luce nivea e diafana, la progressiva rarefazione della materia; e nel dettaglio, l’intreccio di riflessi e rifrazioni, con la figura dello specchio di certe fughe bachiane (una il rovescio simmetrico dell’altra) che si ritrova sia nella microstruttura del verso dantesco (vedi il chiasmo sulla Trinità, in XIV, 28-29: «Quell’uno e due e tre che sempre vive/e regna sempre in tre e due e uno» ) sia nella macrostrutttura del montaggio: nell’XI canto il domenicano Tommaso elogia San Francesco, e nel XII il francescano Bonaventura elogia San Domenico.
Strettamente connessa a quella musicale, la prospettiva scientifica permette a Mandel’stam alcune analogie penetranti, come quella «cristallografica» , che equipara la Commedia a un immenso poliedro di 14.000 facce (tante quante i versi), lavorato da migliaia di api in un brulichio cooperativo crescente con la complessità del favo, e in cui ogni ape lavora al particolare senza perdere di vista l’insieme.
E’ una comparazione «dantesca» , un vero omaggio, cui il poeta russo fa seguire un chiarimento sul carattere non solo descrittivo, ma estetico e conoscitivo, delle similitudini nella Commedia. Un pensiero metaforico che ritroveremo a quel grado solo in uno scrittore-scienziato (Robert Musil) che condivide con Dante anche la dialettica tra «anima ed esattezza» e il carattere del suo non-protagonista: il Dante-personaggio spaesato e tormentato descritto da Mandel’-stam sarebbe- senza la protezione della Provvidenza - un antefatto dell’Uomo senza qualità.
Ma anche qui, grazie alla sua esortazione di metodo («Il futuro dell’esegesi dantesca appartiene alle scienze naturali» ), Mandel’stam ci spinge ad andare oltre. A usare le scienze per decifrare non solo la tessitura del verso (l’ «orchestra chimica» ) ma anche la sua dimensione cognitiva: lui stesso cita del resto il canto XXVI del Paradiso, dove risalta il rapporto tra la luce e la fisiologia dell’occhio. Prendiamo, per esempio, due sequenze chiave del Purgatorio.
Nel canto XXV lascia meravigliati la descrizione- per bocca di Stazio e basata su Alberto Magno- degli stadi dell’embrione dopo il concepimento: simile a «spungo marino» (incrocio di spugna e fungo) dispiega tutte le sue membra, ma il passaggio decisivo avviene solo quando si è sviluppato il cervello («l’articular del cerebro è perfetto» ) e l’intervento divino immette l’ «anima intellettiva» , base della consapevolezza (di un essere «che vive e sente e sé in sé rigira» ). Oggi sappiamo quanto sia diversa l’embriogenesi -l’azione concertata della selezione, degli interruttori genetici e della scrematura neurale -; eppure, la descrizione dantesca sembra già contenerla per slancio immaginativo e grazia poetica: per tacere del fatto - casuale, ma non per questo meno emozionante -, che la neurobiologia ha dimostrato come le proteine di connessione dei nostri neuroni (del nostro pensiero) coincidano proprio con quelle di adesione cellulare in certe spugne.
Nel canto XVI - all’esatto centro del poema - Dante chiede invece conto a Marco Lombardo della crudeltà-opacità umane (perché il mondo sia «diserto/ d’ogne virtute» ) e gli viene risposto che la mente infantile è una tabula rasa soggetta -se non educata- a piaceri ingannevoli e pericolosi, e che quei piaceri -diventati nell’adulto infrazioni e crimini - dovrebbero essere contrastati da un diritto purtroppo mal amministrato («Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» ).
La sintesi è una terzina-invettiva densa come un trattato («Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che ’ l mondo ha fatto reo/e non natura che n’voi sia corrotta» ) in cui cade ogni alibi per le nostre azioni, per il nostro «libero voler» . Oggi sappiamo che il libero arbitrio e la volontà sono molto più limitati di quanto pensasse Dante (basti ricordare che tante scelte istintive affiorano alla coscienza dopo mezzo secondo) e che non sono così elevate le possibilità di plasmare la natura (i vincoli biologici) con la cultura. Ma questo, anziché ridurle, acuisce le nostre responsabilità, a partire da quelle educative. E poi, se anche la nostra libertà fosse solo un’illusione, la forza di quella sequenza la persuasività visionaria e musicale, ancora una volta, del verso dantesco riuscirebbe a darle la consistenza di una speranza.