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IMMAGINARIO E POLITICA. ALLE ORIGINI DEL SUPERUOMO DI MASSA E DELL’ITALIA COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DI UN UOMO SUPREMO

KANT, GRAMSCI, E SIMONE WEIL. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE. Materiali sul tema - a cura di Federico La Sala

(...) Nel carattere popolaresco del “superuomo” sono contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da “primadonna” più che da superuomo; molto formalismo “soggettivo e oggettivo”, ambizioni fanciullesche di essere il “primo della classe”, ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale (...)
sabato 17 giugno 2023
KANT - [...] In quest’uomo sterminato vi è un continuo ed intimo commercio di uno spirito con tutti gli altri e di tutti con uno; e, qualunque possano essere la posizione reciproca degli esseri viventi in questo mondo o il loro cambiamento, essi hanno tuttavia nell’uomo supremo un tutt’altro posto, che non mutano mai, e che in apparenza è un luogo in uno spazio immenso, ma in realtà un determinato modo dei loro rapporti e influssi [...]
GRAMSCI - [...] Il tipo del “superuomo” è (...)

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> KANT E GRAMSCI. ---- IL BINOMIO GRAMSCI- SAN REMO. Era giusto smetterla con gli snobismi. Anche il pensatore comunista s’interessava alla cultura popolare» (di Gianni Borgna)

giovedì 9 febbraio 2012


-  Scandalizzò il binomio Gramsci - Sanremo

-  «Era giusto smetterla con gli snobismi
-  Anche il pensatore comunista s’interessava alla cultura popolare»

-  L’autore dell’articolo che aprì nell’86 sul l’Unità la polemica sul Festival risponde all’intervento di Adinolfi.

-  di Gianni Borgna (l’Unità, 09.02.2012)

Massimo Adinolfi ha rievocato su queste colonne la risposta di Beniamino Placido a un mio articolo sul Festival di Sanremo scritto per l’Unità nel 1986. Si trattava, in realtà, di una coda della polemica iniziata sei anni prima in occasione dell’uscita per Savelli del mio libro sul Festival dal titolo La grande evasione. In un lungo articolo su Repubblica, La Gramsci-Sanremo, Placido lo aveva recensito non criticandolo nel merito ma asserendo che non valeva la pena parlare di un fenomeno tanto superficiale: «Ma perché sprecare tanto ingegno, tanto coraggio? Perché non mettere questo talento, o quanto meno questo ardimento critico, al servizio delle cose culturalmente interessanti, non di ieri, ma di oggi?».

La POLEMICA DI PLACIDO

Era il tipico atteggiamento snobistico di una certa sinistra intellettuale nei confronti della canzone e, in genere, della cultura popolare. Ma il fatto strano era che, nella circostanza, fosse proprio lui a farsene interprete. Perché, se finalmente in quegli anni c’erano intellettuali attenti ai fenomeni della comunicazione di massa e capaci di utilizzare al meglio il mezzo televisivo, uno di questi era proprio Placido. Ho sempre avuto l’impressione che quella reazione fosse dovuta non tanto al contenuto del libro quanto al fatto che lo avessi scritto ispirandomi a Gramsci. Placido era un intellettuale di cultura laica; se mi fossi ispirato a Mc Luhan o a Eco, probabilmente il suo giudizio sarebbe stato diverso.

Tuttavia in Italia la scoperta del valore della cultura popolare (insisto su questa espressione più giusta e corretta di quella di «cultura di massa») si deve proprio, ben prima e più degli studiosi dei mass-media e delle culture «basse», al grande pensatore comunista. Il quale attribuiva gran peso «all’infima letteratura popolare» perché «solo attraverso generi che, pur in forma distorta e mistificatoria, sono naturalmente popolari, si può sperare di stabilire il contatto con la grande massa dei lettori».

Gramsci, dunque, puntando al riscatto anche culturale delle classi subalterne, non poteva permettersi atteggiamenti snobistici verso tendenze e fenomeni che, per quanto ingenui, suscitano interesse nell’animo popolare. Il che non significa accettarli acriticamente o considerarli l’unica autentica manifestazione del gusto popolare, quanto cercare di cogliere, anche per questa via, aspirazioni, tendenze, orientamenti di quei ceti che, soli, possono costituire «la base culturale della nuova letteratura». L’egemonia culturale insomma - e questa è una delle geniali intuizioni dell’autore dei Quaderni del carcere - va perseguita sempre su due fronti, non solo su quello degli intellettuali ma anche su quello delle masse.

Quando il mio libro uscì, nel 1980, era il populismo (e dunque anche il gramscismo) ad essere da almeno un ventennio al centro delle più forti polemiche. Era venuto il momento, così almeno pensavo, di mettere in discussione anche le forme più sterili e estreme di snobismo e di elitarismo.

Non dobbiamo dimenticare, per tornare a Sanremo, che fino ad allora (e dunque per 30 anni) la sinistra non se n’era mai occupata e, se anche in qualche raro caso l’aveva fatto, era stato solo per irridere quella manifestazione. Eppure il Festival era stato davvero, almeno negli anni d’oro, un grande romanzo popolare e dunque uno di quei fenomeni che Gramsci non si sarebbe certo lasciato sfuggire. Eppure a Sanremo aveva spiccato il volo Nel blu dipinto di blu, che con i suoi 22 milioni di copie vendute in tutto il mondo ha conquistato persino la vetta delle classifiche statunitensi. A Sanremo sono passati quasi tutti i protagonisti della canzone italiana e di quella internazionale. Sanremo ha tenuto a battesimo anche negli ultimi trent’anni molte delle più promettenti voci nuove (Vasco Rossi, Zucchero Fornaciari, Eros Ramazzotti, Fiorella Mannoia, Giorgia, Elisa, Carmen Consoli) e tante nostre canzoni «evergreen».

PERSO IL CARATTERE ORIGINARIO

Occuparsi del festival, dunque, non era affatto una bizzarria o una perdita di tempo. Tanto più che il mio era uno sguardo critico e, a tratti, spietato. Si era nel 1980 ed io già decretavo che il Festival aveva perso le sue caratteristiche originarie, la sua spinta propulsiva, che aveva avuto «fino a quando non è stato un’ideologia ma l’Ideologia (sia pure ridotta in pillole), finché non è stato un divertimento ma il Divertimento (nella sua forma archetipica), finché, insomma, ha saputo essere la Grande Evasione per milioni di italiani di ogni età e di ogni ceto sociale». Mentre invece, «con l’avvento, da una parte, del pop e dei concerti di massa o della discomusic, dall’altra, di possibilità ben più sofisticate di evasione di massa, il Festival è apparso sempre più un contenitore completamente svuotato, un reperto archeologico di un’Italia che ci siamo lasciati definitivamente alle spalle».

Oggi le cose sono ancora cambiate, ma il giudizio non può che essere perfino più critico. Non per le canzoni, ché ancora in questi anni ce ne sono state di belle e bellissime. Ma perché purtroppo la Rai ha snaturato del tutto la manifestazione fino a farne un’interminabile, e insopportabile, maratona televisiva, nella quale le canzoni sono spesso poco più che riempitivi o pretesti. E così il Festival, o meglio, il suo simulacro televisivo, vive sempre più in un suo mondo virtuale, in un’idea di tv sufficiente a se stessa. Trasformandosi, come qualcuno ha detto, da celebrazione per quanto «debole» della vita nazionale nella celebrazione «forte» solo di se stesso.


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