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RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ...

CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE - E ANDARE OLTRE. IL MESSAGGIO DELLA "CAPPELLA SISTINA" CARMELITANA (1613) RITROVATO A CONTURSI TERME (SALERNO). Documenti e materiali sul tema - a c. di Federico La Sala

DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Note sul "Poema" rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989). La prefazione di Fulvio Papi e parte della premessa del lavoro di Federico La Sala
martedì 5 novembre 2013 di Federico La Sala
In fondo, in pdf, un pieghevole sulla Chiesa del Carmine di Contursi Terme (Salerno).

CARMELITANI SCALZI ED ECUMENISMO: STORIA E MEMORIA. Ritrovato nel salernitano "file" perduto del tardo Rinascimento
[...] Nel 1608, in piena bufera controriformistica, pochi anni prima che in tutta Europa divampassero le guerre di religione e che il filologo Isaac Casaubon (De rebus sacris et eccleslasticis exercitatíones
XVI. Ad Cardinalis Baronii (...)

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> CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO ---- Diritto finito all’Indice (di Massimo Firpo).

giovedì 16 agosto 2012

Diritto finito all’Indice

di Massimo Firpo (Il Sole 24 Ore - Domenicale, 12 agosto 2012)

La risposta della Chiesa di Roma alla sfida della Riforma protestante fu lenta e difficoltosa. Troppe fragilità personali, troppa distanza da ogni autentica sensibilità religiosa, troppi interessi fiorentini avevano impedito ai papi medicei, Leone X (1514-1521) e Clemente VII (1523-1534) di promuovere qualche significativo rinnovamento pastorale e istituzionale, e anche lo sfrenato nepotismo del loro successore, Paolo III Farnese (1534-1549), fu ben lungi dal segnare una svolta.

Ciò contribuisce a spiegare perché solo nel 1542, ben 25 anni dopo le tesi di Wittenberg, fosse istituito il Sant’Ufficio dell’Inquisizione romana, con il compito di debellare ogni forma di dissenso religioso, e solo nel 1546 potesse infine riunirsi il concilio di Trento, destinato tuttavia a concludersi solo nel 1563. Le istanze della repressione precedettero dunque quelle della riforma della Chiesa in capite e in membris, e ne segnarono profondamente la presenza e il ruolo sociale, il magistero dottrinale, gli orientamenti politici, l’identità storica lungo tutto l’arco di una Controriforma destinata a durare fino al concilio Vaticano II.

Tra i compiti primari di questo capillare controllo della vita religiosa, com’è ovvio, emerse l’esigenza di sorvegliare la circolazione dei libri, quel possente strumento di diffusione delle idee che lo stesso Lutero aveva definito come l’ultimo e il più grande dono di Dio, con il quale aveva voluto far conoscere «fino ai confini del mondo» la vera fede di un cristianesimo rinnovato. I primi elenchi di libri proibiti cominciarono a circolare precocemente in sede locale, fino all’Indice pubblicato nel 1549 a Venezia dal nunzio Giovanni Della Casa, al rigorosissimo Indice di Paolo IV del 1558, all’Indice tridentino del 1564, a quello di Clemente VIII del 1596: compito di tale importanza e di tali dimensioni da convincere Pio V, il papa inquisitore per eccellenza, a istituire nel 1571 una nuova congregazione cardinalizia, destinata appunto a questo compito.

Un compito immane e di fatto impossibile, che esigeva di fronteggiare una marea di libri sempre crescente e ovunque pullulante, al punto da indurre il cardinale Roberto Bellarmino, diventato poi san Roberto Bellarmino dottore della Chiesa, ad affermare mestamente che sarebbe stato opportuno che per molti anni «non vi fusse stampa» e ad ammettere che i censori romani riuscivano a stento e tra molte falle ad arginare la diffusione dei libri eterodossi soltanto al di qua delle Alpi, «almeno qui dove potiamo».

L’Italia diventava così l’ultima e assediata cittadella della fede cattolica, poiché in Spagna agiva un’Inquisizione controllata dalla corona (e quindi sensibile alle sue esigenze politiche e giurisdizionali) e in Francia pluralismo religioso e istanze gallicane facevano diga al centralismo romano e impedivano che le autorità romane diventassero «signori di libri», domini librorum, come denunciava Paolo Sarpi. Un compito tanto più impossibile, infine, in quanto occorreva distinguere tra libri da condannare e libri da espurgare, libri del tutto erronei e libri non privi di errori, e ancor più perché il dilatarsi del concetto stesso di eresia dalla teologia alla filosofia (il platonismo), alla scienza (Galileo), alla letteratura, alla pseudosantità, al diritto finiva con l’estendere di fatto a tutta la produzione tipografica una sorveglianza destinata a diventare sempre più illusoria e velleitaria con il passare del tempo.

Ad essere coinvolti in questa debole quanto ossessiva prassi censoria furono anche i libri giuridici, come spiega in questo saggio Rodolfo Savelli (Rodolfo Savelli, Censori e giuristi. Storie di libri, di idee e di costumi (secoli XVI-XVII), Milano, Giuffrè, ), storico del diritto attentissimo alla contestualizzazione storica e quindi capace di cogliere con finezza le ragioni specifiche delle censure ecclesiastiche, dal «lento avvio» cinquecentesco fino al tramonto nell’età dei Lumi, quando esse finirono con il perdere di credibilità e valore, fino a diventare oggetto di scherno, nella convinzione che a Roma si proibisse «tutto ciò che non è Bellarmino».

Libri che incrociavano una molteplicità di temi particolarmente sensibili per le autorità religiose, come il prestito a interesse, per esempio, o le prerogative statali, l’amministrazione della giustizia e le immunità, il foro ecclesiastico, i matrimoni, questioni delicate, che rischiavano di sconfinare sul terreno sempre più dilatato dell’eresia: i libri che difendono «l’autorità temporale del principe», scriveva ancora Sarpi, sono «dannati e perseguitati più degli altri».

A ciò si aggiungevano anche gli interessi materiali di tipografi e librai, che traevano profitto dallo smercio di opere che costituivano oggetto di studio nelle Facoltà giuridiche: di qui la particolare attenzione di cui furono fatti oggetto i commentari alle Institutiones, pubblicati a volte con l’esplicita precisazione che in essi era stato omesso tutto ciò che fosse contrario alle norme del diritto canonico. Ne scaturivano oggettivi limiti di conoscenza e soggettivi scrupoli di coscienza (tali a volte da indurre a chiedere il permesso di leggere libri che non erano proibiti), censure e autocensure, favoritismi ed espedienti, autorizzazioni concesse e negate, all’insegna del costante timore delle autorità ecclesiastiche per la libertà di coscienza, per il discernimento dei fedeli.

E intanto già nel Seicento la lista degli autori condannati si dilatava a comprendere numerosi giuristi cattolici, italiani, spagnoli, francesi, anch’essi schieratisi in difesa dell’autorità secolare contro i privilegi e le immunità ecclesiastiche, a dimostrazione di quanto il baluardo dei censori romani cominciasse a dare segni di cedimento.

Da quindici anni a questa parte gli archivi di quella che fu la congregazione dell’Indice sono aperti alle ricerche degli studiosi e numerosi studi ne hanno esplorato l’azione in materia di fede, di morale, di politica, di letteratura: è merito dell’autore di queste pagine aver affrontato il tema cruciale della cultura giuridica, anch’essa passata al vaglio di teologi sensibilissimi alla «ragion di Chiesa» e ossessionati per secoli da «quelli diavoli di Genevra» dai quali ai loro occhi erano nati tutti i mali del mondo moderno.


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