Storiografia e Sismografia alla Warburg:
FOLLIA
di Lavinia Mainardi (Passioni & Linguaggi, 1 luglio 2023)
Scrive James Hillman in L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi: «Nell’antica Grecia, luoghi quali crocevia, sorgenti, pozzi, boschi e simili avevano specifiche qualità e specifiche personificazioni: dei, demoni, ninfe, daimones, e se si era inconsapevoli di tutto questo, se si era disattenti alle figure che abitavano un incrocio o un bosco, se si era insensibili ai luoghi, si correva un grande pericolo. Si poteva esserne posseduti». Se come asseriva Servio nullus locus sine genio est proveremo a metterci alla ricerca di un daimon, di una ninfa e di un incrocio a svelarci la tentacolare pregnanza del genius di una di quelle che Michel Foucault definisce eterotopie, ovvero luoghi differenti, chiusi e rigidamente normati, che il filosofo francese ci descrive in maniera particolareggiata nella sua Storia della follia nell’età classica: «Una data può servire come punto di riferimento: 1656, decreto di fondazione dell’Hôpital géneral, a Parigi. A prima vista si tratta solo di una riforma: appena d’una riorganizzazione amministrativa. Diverse organizzazioni già esistenti sono raggruppate sotto un’unica amministrazione: la Salpêtrière, ricostruita sotto il regno precedente per mettere al coperto un arsenale; Bicêtre, che Luigi XIII aveva voluto dare alla commenda di Saint-Louis per farne una casa di riposo destinata agli invalidi dell’esercito [...] Tutto è destinato ai poveri di Parigi [...] si tratta di accogliere, di alloggiare e di nutrire [...] bisogna anche provvedere alla sussistenza, alla buona tenuta, all’ordine generale [...] questo incarico è affidato a direttori nominati a vita [...] L’Hôpital géneral - sottolinea Foucault - non è un’istituzione medica. È piuttosto una struttura semigiuridica [...] e al di fuori dei tribunali, decide, giudica ed esegue».
In quell’epoca foriera di trasformazioni, sospesa come un funambolo fra la sfrenata leggerezza della Belle Époque e la consapevolezza della finis imperii, in quell’atmosfera di imminente ma latente crisi che attenderà il nuovo secolo per esplodere, il direttore della Salpêtrière era il Professor Jean-Martin Charcot cui si deve quella che Georges Didi-Huberman sintetizza ineccepibilmente come “Invenzione dell’isteria”.
Un’invenzione di cui tenteremo di rintracciare le rizomatiche connessioni con gli altri saperi che in quegli anni stavano modificando il paradigma epistemologico della nascente sensibilità “contemporanea”, intrecciando alle certezze misurabili del Positivismo un serpeggiante affacciarsi delle componenti meno razionali del pensiero.
Ma prima torniamo per un momento ai nostri daimones. In La follia che viene dalle ninfe, Roberto Calasso ricorda come «il primo essere cui Apollo parlò sulla terra fu proprio una ninfa, depositaria di quella conoscenza oracolare cui il dio ambisce in un’era in cui il sapere è possessione e la metamorfosi lo “statuto normale della manifestazione”». Scrive Roberto Calasso: «L’immagine moderata della possessione dipende ancora in gran parte, seppure non lo si ammetta, dall’ occultismo ottocentesco. Sono bocche schiumanti o megere glossolaliche o bionde sataniste efferate i primi riferimenti che affiorano, se persino Eric Dodds, in The Greeks and the Irrational si sentì in dovere di dare finalmente cittadinanza alla letteratura parapsicologica accanto ai testi di Platone e degli Orfici». Per i Greci «la possessione fu una forma primaria della conoscenza [...] la mente era un luogo aperto, soggetto ad invasioni, incursioni [...] segnale di una metamorfosi [...] una conoscenza che è un pathos [...] ninfa è la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento [...] ciò che gli alchimisti chiameranno prima materia».
Intorno al 1890, rammenta Calasso, «a Firenze il giovane Aby Warburg studiava Botticelli, in rapporto a quella che allora si chiamava “sopravvivenza” (Nachleben) e presto arrivò a una conclusione [...] l’antichità riaffiorava non tuttavia nelle winckelmanniane vesti di “nobile semplicità e quieta grandezza”, ma nell’improvviso intensificarsi del gesto». Ma fu una sorta di apparizione quella di una figura femminile arcaicizzante nell’affresco del Ghirlandaio in Santa Maria Novella La nascita di san Giovani Battista a far riemergere la ninfa proiettandola in un orizzonte problematico in cui la «mania è più bella della sōphrosynē »: l’orizzonte delle alienate della Salpêtrière.
Un orizzonte che a questo punto esige di essere meglio compreso alla luce di un prisma di influenze, relazioni, incontri, conoscenze accidentali, uno di quei crocevia insomma evocati da Hillman.
Nell’ottobre del 2018 il Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi ha promosso la mostra Sigmund Freud, du regard à l’écoute , in cui si indagano i referenti meno conosciuti dell’iniziatore della psicanalisi attraverso un apparato iconografico eterogeneo che include quadri, disegni, incisioni, oggetti e dispositivi scientifici, in una sorta di Wunderkammer della patologia neurologica fin de siècle. Una sezione della mostra, nell’intento di far emergere la derivazione del pensiero freudiano anche dalla psichiatria francese, filiazione fin troppo emarginata, si sofferma sui rapporti con Charcot, in occasione di un giovanile viaggio di studio. Scrive Jean Clair in La Salpêtrière, magnétisme, hystérie et hypnose: «Durante l’inverno 1885-1886, Sigmund Freud, giovane medico, ottiene una borsa di studio per seguire a Parigi i corsi di Jean-Martin Charcot. Il celebre neurologo dirige la clinica delle malattie del sistema nervoso presso la Clinica ospedaliera della Salpêtrière, di cui ha inaugurato la cattedra. Le sue lezioni pubbliche, durante le quali pratica l’ipnosi su pazienti isteriche, sono dei rendez-vous mondani in cui si incontrano scienziati, scrittori ed artisti. Freud desidera vedere con i propri occhi queste controverse esperienze, incorniciate dall’aura del “meraviglioso” che si ricollegava precedentemente al magnetismo animale (teoria e pratica terapeutiche sviluppate nel XVIII secolo dal medico tedesco Franz Anton Mesmer, fondate sull’ipotesi dell’esistenza di un “fluido magnetico”), ma dove nessuno sospettava un eccesso di compiacenza da parte delle malate nei confronti dello sguardo dei medici. La teatralità delle sessioni e gli artefatti di questa proteiforme malattia “che sembra ignorarare l’anatomia”, qualificata come nevrosi, impressiona Freud che propone a Charcot di tradurre le sue Maladiès du système nerveux in tedesco. Questo insegnamento è stato immortalato dal quadro di André Brouillet Une leçon clinique à la Salpêtrière del 1887, di cui Freud acquisterà una riproduzione posizionata nel suo studio viennese».
Ma a cosa rapportare questa spettacolarizzazione del patologico, la rappresentazione fotografica della malattia (L’iconographie photographique de la Salpêtrière fornì un repertorio per molta arte visiva coeva, probabilmente anche per certe forzature espressionistiche della pittura di Egon Schiele come dimostra un recente studio di Federica Usai che ancora una volta collega Parigi a Vienna), la teatralità corporea di membra esibite a sguardi apparentemente clinici, quella che Georges Didi-Huberman definì nel suo primo lavoro datato 1982 L’invenzione dell’isteria, scritta due anni prima della scomparsa di Michel Foucault cui il lavoro deve molta della sua ispirazione. Scrive Didi-Huberman: «la Salpêtrière (fu) una grande macchina ottica volta a decifrare gli invisibili lineamenti di un cristallo: la grande macchina territoriale, sperimentale, magica dell’isteria. Il metodo “anatomo-clinico” promosso da Charcot aveva realizzato qualcosa di simile a un compromesso con l’obiettivo, fisiologico ed essenzialista, di studiare le malattie nervose. Sebbene non sia possibile vedere direttamente il funzionamento del cervello, si potranno tuttavia individuare i sintomi, visibili sul corpo, degli effetti provocati dalle alterazioni di tale funzionamento»: l’isteria è prima di tutto uno sguardo, un’immagine, anzi un repertorio di sintomi induttivamente ricondotti ad una tassonomia iconografica.
Se dunque da un lato il teatro dei martedì di Charcot si può ricondurre all’emergere di quella preminenza del visivo da cui verrà permeata tutta la cultura a posteriori, non si può eludere dal contemporaneo emergere, proprio nella seconda metà dell’Ottocento, epoca di dilagante positivismo, di una rivalutazione dei tratti più irrazionali in molteplici discipline, in primis la filologia, tendenza culminata con l’uscita nel 1872 de La Nascita della Tragedia di Friedrich Nietzsche, che portava a compimento un percorso che, forse nato con il ritrovamento nel gennaio del 1506 del gruppo scultoreo del Laocoonte con le sue torsioni e i suoi grovigli, continuato a scorrere fra i ruscelli carsici di certo anti-rinascimento e del manierismo più anti classico, riemerso in certe estetiche eterodosse del Romanticismo tedesco fra i filosofi di Heidelberg, Creuzer e Bachofen, venne amplificato anche dalla riscoperta di categorie retoriche quali quella del Sublime.
Una strada tortuosa che Didi-Huberman sembra voler ripercorrere, voltandosi ora con occhi diversi a guardare all’esperienza della Salpêtrière. In L’immagine insepolta, pubblicato nel 2002, il cui sottotitolo Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte tradisce i sentieri nel frattempo imboccati dallo storico dell’arte francese, viene compiuta una scrupolosa ricognizione del complesso orizzonte di situazione e dei referenti della Weltanschauung del critico tedesco, visione in cui Didi-Huberman rileva una metafora-chiave, quella del sismografo che capta «onde, tensioni, resistenze, sintomi, crisi».
Captatori furono Goethe di fronte al gruppo statuario del Laocoonte, captatori furono Nietzsche e Burckhardt nel riscoprire le radici dionisiache dell’antica civiltà greca, captatore fu Darwin con le sue rivoluzionarie teorie evoluzionistiche e captatore fu anche Charcot con il suo dinamografo che «ausculta il corpo isterico», operando così una sovrapposizione fra i corpi inarcati delle alienate della Salpêtrière e le cosiddette Pathosformeln, su cui è improntata la concezione di sopravvivenze dell’antico di Warburg.
«Le Pathosformeln - scrive Didi-Huberman - andranno comprese come le cristallizzazioni corporee della “dialettica del mostro”. Momenti-sintomi [...] le formule di pathos sono considerate da Warburg secondo il punto di vista dialettico della rimozione [...] e del ritorno del rimosso. L’immagine in movimento [...] non descrive altro che movimenti-sintomi. [...] In base a quale paradigma possiamo comprenderli? Più di qualsiasi altra cosa è la clinica dell’isteria trionfante e spettacolare in questa fine del XIX secolo che sembra dover fornire il modello sintomatologico più pertinente [...] Nel sintomo isterico si fondono le Pathosformeln espressive della crisi e il Nachleben di un trauma latente che fa ritorno nell’intensità dei movimenti prodotti. A quel punto - continua Didi-Huberman - sorge l’astro di Charcot, maestro e caposcuola indiscusso del funzionamento sintomatico, nonché indiscusso direttore del corpo di ballo dello spettacolo isterico alla fine del XIX secolo [...] Come non rimanere colpiti dall’analogia tra le figure dionisiache della Ninfain Warburg e le figure dell’isteria disegnate da Richter alla Salpêtrière?».
Per un breve momento, dunque, quello che si è cercato di fissare in questa veloce rassegna, il genius loci di un ospedale barocco diretto da un enigmatico e ambizioso professore di neurologia, regista di performances ante litteram, permise ad arte e follia di incontrarsi, un incontro da cui l’estetica non ha più saputo svincolarsi.