Quel “mea culpa” di Wojtila che serve ancora al dialogo
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 27 febbraio 2011)
Due anniversari prossimi della vita di Karol Wojtyla - quello del mea culpa pronunciato il 12 marzo 2000 in San Pietro e poco dopo la consegna al Muro del pianto del foglietto con quel testo - potrebbero fornire i contenuti ideali per le chiese che stanno ordinando monumenti da inaugurare a maggio. Chi volesse davvero «prendere» Giovanni Paolo II per ciò che è stato non dovrebbe mettere sugli altari bronzi ineleganti, brutti dipinti, supponenze inespressive del «noto artista», ma delle video-icone: e come Bill Viola dilatare in ore i pochi secondi di un gesto che, dal 1978 in poi, è ormai il solo magistero del Papa capace di parlare.
Nella quaresima giubilare del 2000, infatti Wojtyla segnò un punto alto del dialogo ebraico cristiano: dialogo totalmente asimmetrico, giacché Israele non ha bisogno di dire cos’è la chiesa, mentre la chiesa ha bisogno di dire cos’è Israele. Un punto preparato fra errori, fra intuizioni: come quella di aggiungere un inciso («ripeto: da chiunque») al discorso alla sinagoga di Roma nel 1986, per sottolineare come la presa di distanza conciliare dall’antisemitismo praticato «ovunque e da chiunque» non ammettesse riserve. E culminato nella quarta preghiera pronunciata in San Pietro quel 12 marzo, domenica del perdono, e consegnata al Muro occidentale.
«Nel ricordo delle sofferenze patite dal popolo di Israele nella storia» riconosceva i peccati commessi «da non pochi» contro «il popolo dell’alleanza e delle benedizioni»: e confessava a Dio il profondo dolore «per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli» impegnandosi «in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». Portare queste parole a Gerusalemme voleva dire davvero salire alla dimora di Dio per un atto di umile sfida a se stessi, sottoporsi ad una prova che non ammetteva equivoci. E che meriterebbe di essere ricordato da un video-altare in una chiesa cattolica. Non per celebrare «risultati», che non ci sono: comprendersi non è una cosa e non si tramanda. Ma per ricordare che il dialogo asimmetrico con Israele si fa così (lo dimostra il summit ebraico-cristiano di oggi a Parigi): con il tremore di chi sa di dover camminare verso un muro, per togliere spazio al muro che s’alza dentro ciascuno nel muto fragore dell’indifferenza.