Stato e Chiesa, 150 anni dopo
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 20 marzo 2011)
Nelle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia non si è parlato molto del rapporto stato-chiesa, anche se si è trattato di un rapporto molto difficile. Se ne è parlato poco forse proprio perché la questione è ancora calda, forse anche perché il principale tentativo di soluzione, il Concordato del 29, aveva la firma solenne del fascismo.
Qualche cosa ha detto il Presidente Napolitano nel solenne discorso al Parlamento: «Si ebbe di mira, da parte italiana, il fine della laicità dello stato e della libertà religiosa e insieme il graduale superamento di ogni separazione e contrapposizione tra laici e cattolici nella vita sociale e nella vita pubblica. Un fine pienamente raggiunto». E il Presidente ringrazia il Pontefice. Una considerazione che oggi appare scontata, mentre nelle celebrazioni qualche cardinale appare in prima fila, insieme alle massime autorità dello stato.
Una presenza che sembra piuttosto inutile: i problemi sono enormi, dalla povertà alle immigrazioni, alla disoccupazione e la chiesa sembra inutile, non in grado di fornire aiuto allo stato che non ce la fa.
Perciò la vistosa presenza cattolica sembra piuttosto insignificante. E le intese fra stato e chiesa sembrano ricordi di un passato che non c’è più, mentre la chiesa stessa non sembra in grado né di aiutare né di contrastare. Forse è giunto il tempo in cui tutti, stato e chiesa - meglio: chiese al plurale - accettino che le religioni sono un fatto privato e che come tale anche lo stato le deve considerare. Nonostante il Tevere, più largo o più stretto, come diceva Spadolini, secondo i tempi e i governi.