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POLITICA E RETORICA ITALIANA, NELL’EPOCA DEL BERLUSCONISMO GALOPPANTE (1994-2011). Quando non c’è serietà le bugie dilagano, le immagini s’adeguano ...

FARE PAURA. TOGLIERE A LAMPEDUSA E ALL’ITALIA LE LORO VIRTU’: DIGNITA’, CALMA, RESISTENZA, SERIETA’. Lampedusa e la sovranità del panico. Un’analisi di Barbara Spinelli - a c. di Federico La Sala

Giustamente il cardinale Martini mette in guardia contro l’uso dello spauracchio apocalittico: non ha detto, Gesù, che "fatti terrificanti" verranno ma "nemmeno un capello del vostro capo perirà"? (...)
giovedì 7 aprile 2011 di Federico La Sala
[...] la menzogna decisiva riguarda quel che l’Italia pensa di sé. Alla radice della cecità, c’è l’illusione di essere una nazione che ancora può scegliere tra essere multietnica o no. Che non deve nemmeno chiedersi se stia divenendo xenofoba.
In realtà sono 30 anni che siamo un paese d’immigrazione, con punte massime negli ultimi dieci, e quando Berlusconi nel 2009 disse che "non saremo un paese multietnico", mentiva per evitare il ruolo di pedagogo delle crisi. Per negare che la (...)

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> FARE PAURA. ---- Immigrati I due soliti pesi: o ci servono o ci fanno paura. L’incapacità del governo di gestire i flussi che arrivano dall’Africa non è solo un problema legato all’emergenza. C’è che è miope e sbagliata tutta la politica -- Finalmente li chiamiamo migranti.

mercoledì 30 marzo 2011

Immigrati

I due soliti pesi: o ci servono o ci fanno paura

È già accaduto in America, in Germania, in Svizzera: l’immigrazione tende a trasformarsi in stanziale con buona pace degli ariani nostrani. Che però usano «gli stranieri»

L’incapacità del governo di gestire i flussi che arrivano dall’Africa non è solo un problema legato all’emergenza. C’è che è miope e sbagliata tutta la politica migratoria

di Andrea Salvini (l’Unità, 30.03.2011)

Mi ricordo di una singolare polemica, poco meno di due anni fa, tra Forza Nuova e la Lega nord. Siccome le camicie verdi volevano la sanatoria per colf e badanti, i neofascisti li accusavano di incoerenza: quando uno era contro gli immigrati, infatti, doveva esserlo fino in fondo e non a seconda delle convenienze economiche. Dal suo folle punto di vista, Forza Nuova aveva ragione: le obiezioni di Roberto Fiore mettevano il dito nelle contraddizioni della destra, che per uscire dall’angolo si è inventata la favola dell’immigrazione circolare. È vero che gli immigrati ci servono - ammettono ad esempio i neocon della fondazione Magna Charta, il think tank di Gaetano Quagliariello - ma oggi vanno e vengono: stanno qui giusto il tempo di mettere da parte un po’ di soldi e poi se ne tornano a casa loro. Investire sulla cittadinanza, insomma, è una perdita di tempo.

La teoria dei neocon nostrani, in realtà, non è particolarmente innovativa: è la stessa che guidò il governo americano una settantina d’anni fa, quando i maschi in età da lavoro erano tutti partiti per la guerra e non c’era nessuno che raccogliesse pomodori. Si misero d’accordo con il Messico per un’importazione di manodopera a tempo determinato: oggi gli hispanics sono il 15% della popolazione statunitense e nel 2050 saranno il 30%. Lo stesso fece la Germania, quando aveva bisogno di manodopera per la ricostruzione post-bellica e chiamò i gastarbeiter, i lavoratori ospiti: l’idea era quella di farli restare il meno possibile e di rimandarli rapidamente a casa loro, ma basta rileggere la formazione della Nazionale tedesca agli ultimi mondiali di calcio - composta per metà da figli di immigrati - per capire che le cose andarono diversamente. Per tutti valgono le parole di Max Frisch, riferite all’immigrazione italiana in Svizzera: “Volevamo braccia, sono arrivate persone”.

Stati Uniti, Germania e Svizzera non rappresentano l’eccezione, ma la regola: al di là degli obiettivi di partenza, nessun Paese è riuscito finora ad impedire che l’immigrazione temporanea si trasformasse in stanziale. Un po’ perché nella patria d’origine si sta peggio, un po’ perché magari nel frattempo sono nati dei figli, gli stessi migranti tendono in stragrande maggioranza a fermarsi lì dove erano arrivati a cercare fortuna: che piaccia o meno ai nostalgici della razza ariana, questo è un dato di fatto anche in Italia, testimoniato dal numero crescente di bambini stranieri che ogni giorno vengono alla luce nei nostri ospedali. Ne nascono circa 78 mila l’anno: più di 200 al giorno, più di 8 all’ora, più di 2 ogni quarto d’ora. I minori stranieri nati e cresciuti in Italia sono oggi 570 mila (una città più grande di Firenze e di Bologna); se ci aggiungiamo quelli arrivati qui da piccoli, che hanno studiato nelle nostre scuole, sfioriamo il milione: se abitassero tutti insieme, sarebbero la quarta città italiana, a pari merito con Torino. Ma è una città invisibile, popolata da fantasmi, che la politica fa finta di non vedere.

Eppure, tutti gli altri li vedono benissimo: li vedono le ostetriche, le maestre d’asilo, gli insegnanti delle elementari, gli allenatori del minibasket, le suore del catechismo (perché spesso sono di famiglie cristiane, anche se la propaganda vigente preferisce puntare sull’invasione islamica), i professori delle medie e quelli del liceo. Li senti parlare con l’accento milanese o napoletano, li vedi tifare ai mondiali per la Nazionale, e non ti sfiora neanche il dubbio che siano stranieri... perché in realtà non lo sono, tranne che per la legge. Una legge scritta 19 anni fa, in un’altra era geologica, e che appariva già vecchia nel 1997, quando la Convenzione europea chiedeva agli Stati di facilitare l’acquisto della cittadinanza per “le persone nate sul territorio e ivi domiciliate legalmente ed abitualmente”. Potrebbe apparire una questione di principio, ma in realtà è molto di più. C’è innanzitutto un lato psicologico della vicenda, perché per un adolescente è importante sapere chi c’è dall’altra parte dello specchio. Ma ce n’è soprattutto uno pratico: fino a quando l’iter per l’acquisizione della cittadinanza non si completa, e normalmente ciò non accade molto prima dei trent’anni, i nuovi italiani sono di fatto dei cittadini di serie B.

“Fin tanto che le leggi non cambiano - mi scrisse su Facebook il mio amico Jaska, 26 anni, arrivato dal Punjab a Città di Castello quando ne aveva 6 - non potremo essere gli Obama italiani, ma nemmeno insegnanti, avvocati, magistrati, impiegati e dirigenti pubblici, ingegneri, architetti, notai, vigili del fuoco, poliziotti, militari, bidelli, autoferrotranvieri e qualsiasi altra attività che preveda l’accesso mediante concorso pubblico”. Di più: se finisci l’università e non trovi immediatamente lavoro, ti arriva un foglio di via che ti rispedisce immediatamente a casa. Anche se casa tua è sempre stata questa, anche se non puoi concepire una patria diversa, anche se l’unica lingua che parli - perfino con i tuoi genitori - è quella che hai imparato a scuola e per strada, da piccolo, giocando con i tuoi amici.

È un po’ singolare questa regressione culturale sul senso della patria, proprio nel 150esimo dell’unità d’Italia, perché basterebbe la mescolanza di arabi e normanni in Sicilia a ricordarci come tra le nostre caratteristiche non ci sia mai stata la purezza della razza. Se mai, da noi è storicamente vero il contrario: ciò che distingue la civiltà romana da tutte le altre è la capacità di distinguere la gens, ossia il cerchio familiare strettamente basato sul sangue, dalla civitas, ovvero la comunità basata su un patto condiviso e su un sentimento di appartenenza. Per carità, non fu sempre facile: l’imperatore Claudio, ad esempio, arrivò a litigare con il Senato per estendere i diritti civili ai Galli. Ma poi la storia gli diede ragione, come racconta Tacito negli Annales: “La pace si consolidò all’interno quando i Transpadani furono accolti nella cittadinanza. I loro discendenti rimangono con noi e nell’amore verso questa patria non sono a noi inferiori”. Molto meglio dei padani di casa nostra, che non cantano neppure l’inno.


L’Europa ci ha già condannati: vietato respingere i migranti

di Alessandro Cisilin (il Fatto, 30.03.2011)

La tentazione dell’espulsione di massa aleggia nell’odierno Consiglio dei ministri. Lasciar “esplodere” Lampedusa serviva anche a questo, e gli stessi vertici leghisti lo hanno fatto trapelare: l’emergenza può tornare utile, se non altro per abbassare il livello di guardia dell’opinione pubblica in materia di diritti essenziali dei migranti, e più ancora dei profughi. Il problema per il governo è che quei diritti godono, almeno sulla carta, di una protezione internazionale e la loro violazione porterebbe il paese all’ennesimo schiaffo europeo.

IL QUADRO giuridico è chiaro, quantomeno verso gli abusi più gravi, e a esso l’Italia è vincolata sin dall’articolo 10 della Costituzione. L’architrave è il principio globale di “non refoulement”, formalizzato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che vieta il trasferimento forzato di qualsiasi persona verso un paese in cui risultasse a rischio per motivi razziali, religiosi, nazionali, sociali o politici. L’Unione europea, per la verità, ha coniugato tale principio in modo piuttosto blando, oltre che tardivo (con le direttive del 2004 e del 2008), sulla spinta di governi e di un Europarlamento tuttora a maggioranza di centrodestra. Ma perfino in tale contesto l’Italia ha passato il segno, specie sugli “allontanamenti collettivi”, che negano al migrante il diritto a un esame individuale.

QUELLI attuati da Lampedusa verso la Libia subirono la condanna dell’Assemblea di Bruxelles già nel 2005. Concetto ribadito due mesi fa quando i deputati dissero no ad accordi con Tripoli (come quello siglato dall’Italia) per l’assenza di garanzie sui diritti umani. A deplorare il nostro governo per i respingimenti in mare è intervenuto l’aprile scorso anche il Consiglio d’Europa. Ma il peggio per il nostro paese, sul piano monetario, potrebbe arrivare dalle procedure d’infrazione della Commissione e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A giugno è prevista la decisione di quest’ultima sulle espulsioni collettive denunciate nel 2009.


Finalmente li chiamiamo migranti

di Beppe Severgnini (Corriere della Sera, 30.03.2011)

Migrante, participio presente. Una persona, un gruppo o un popolo che migra. Si sposta verso luoghi nuovi, alla ricerca di migliori condizioni di vita. Lampedusa è piena di participi presenti, provvisori e contraddittori. Migranti che non migrano. Non vogliono tornare indietro, non possono andare avanti. Stanno là.

Un tempo c’erano immigranti ed emigranti. Moto a luogo e moto da luogo, secondo il punto di vista di chi guarda. In Italia andava forte il secondo termine: per un secolo (1860-1960) la gente è partita in cerca di lavoro. Arrivavano in pochi, benestanti e inclassificabili. Nessuno chiamava «immigrante» la signora inglese innamorata di un cipresso della Toscana.

Quando emigranti e immigranti diventavano stanziali, ottenevano il cambio di residenza e di tempo del verbo. Da participi presenti a participi passati: da emigranti a emigrati, da immigranti a immigrati. Una tregua linguistica durata vent’anni. Poi l’Italia ha cominciato a esportare professionisti e importare manodopera. Era opportuno aggiornare il vocabolario.

Per l’emigrazione è stato facile. Globalizzazione! abbiamo gridato in coro per giustificare la fuga dei cervelli. Peccato che molti ne uscissero e pochi ne entrassero (globo a senso unico: un’eccezione tra i solidi di rotazione). Per l’immigrazione s’è rivelato più complicato. Il 6 agosto 1991 il mercantile Vlora, partito da Durazzo, entrava nel porto di Bari con 12 mila albanesi - un’immagine drammatica e potente, un maremoto umano. Le parole usate sui giornali in quei giorni: disperati, profughi, rifugiati, fuggitivi, boat-people.

Migrazione, immigrazione ed emigrazione non erano contemplate. Era un fenomeno nuovo e cercavamo - illusi - di disinnescarlo con parole nuove. La più popolare, negli anni Novanta, è stata «extracomunitario» . Sorvolando sull’imprecisione - e la perplessità di svizzeri e statunitensi- volevamo essere politicamente corretti. Come se chiamare africano un senegalese non fosse più preciso, e non lo riempisse d’orgoglio.

Poi è venuto il turno di «clandestino» (clam +dies =nascosto al giorno). Il termine non s’è rivelato duttile come il francese sans papiers (senza documenti) ed è finito nelle fauci della politica: sbranato in poco tempo. Oggi la parola magica è «migrante» . Un participio presente che s’adatta alle nostre incertezze (politiche, morali, sociali, belliche). Esprime un’azione che non è chiusa, e trasmette la sensazione - la speranza? - che queste persone siano in transito, non tocchino terra, non abbiano un luogo di provenienza né una destinazione. Rondini umane, cose che capitano in primavera.

Migranti è un vocabolo ecumenico, prudente, un po’ ipocrita, generico quanto basta. Lo possono usare tutti senza addentrarsi nelle distinzioni tra rifugiati (non i tunisini!, spiegano Maroni e Frattini), profughi (termine caro ai duellanti Formigoni e Vendola), finti profughi (scrive la Padania), invasori (dicono leghisti vari).

Nel 2008 l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa (Fnsi), su invito dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, hanno sottoscritto la Carta di Roma e si sono impegnati a utilizzare termini appropriati per ogni tipologia: il richiedente asilo, il rifugiato, il beneficiario di protezione umanitaria, la vittima della tratta. C’è anche il migrante, «colui che può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza» . Ammesso che ce l’abbia ancora, una casa; e che voglia tornarci. Per ora i migranti sono lì, come color che stan sospesi. Un’incertezza che, oggi, pesa sugli abitanti di Lampedusa. Su di loro Italia ed Europa hanno scaricato il futuro di migliaia di participi presenti. Non sembra corretto: politicamente, umanamente, grammaticalmente.


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