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La Sala

ITALIA. STORIE DI REGIME - di Furio Colombo - selezione a cura del prof. Federico La Sala

sabato 2 dicembre 2006 di Emiliano Morrone
STORIE DI REGIME
di Furio Colombo (l’Unità, 01.04.2006)
Faccio una proposta. Propongo una legge che faccia finire la persecuzione contro Bernardo Provenzano. Che quest’uomo possa finalmente tornare a vivere alla luce del sole come tutti i cittadini dopo essere stato costretto a restare alla macchia per quarant’anni. Che senso ha, a questo punto, un atteggiamento di rivalsa e vendetta verso questo anziano dirigente di una vasta organizzazione, che è fuori legge se la legge si interpreta da (...)

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lunedì 27 novembre 2006

Litvinenko una storia italiana

di Furio Colombo *

Oggi, nel giorno che segue il malore ancora inspiegato di Berlusconi, è doveroso associarsi agli auguri di Prodi. Non c’è bisogno di essere amici, meno che mai dipendenti, per augurare a una persona temporaneamente colpita da un male, un voto sincero di guarigione. È bene che la sua voce torni netta come è sempre stata per poter ascoltare, capire e interpretare senza finzioni ciò che lui, con molta chiarezza, continua a dire.

Ieri, a Montecatini, ha concluso: «Vi lascio in eredità il partito della Libertà».

Dando per scontato che Berlusconi stia bene e che continuerà a ripetere questa frase, è necessario capirla.

Essa è la chiave di tutta la vicenda Litvinenko-Scaramella-Guzzanti, una vicenda fuorilegge, che diventa torbida e finisce tragicamente nel delitto Polonio 210.

Il fatto è: una ex spia del Kgb è stata uccisa a Londra alcuni giorni fa alla presenza di un ex collaboratore di primo piano della Commissione Mitrokhin del Parlamento italiano. Era la commissione presieduta da Paolo Guzzanti che (ci informa un documento pubblicato ieri da la Repubblica) Litvinenko chiamava «Pablo», forse perché aveva subito percepito il senso allucinato, da narrazione latino americana, della vicenda italiana.

Intanto prendiamo atto di un fatto cruciale. I due documenti pubblicati ieri da la Repubblica (trascrizione di una conversazione Euvgenji Limarev, e di un incontro a Londra con Aleksandr Litvinenko, entrambi ex spie del Kgb, entrambi sotto contratto con la commissione italiana Mitrokhin) annunciano che la pista di un delitto che ha impressionato il mondo passa dall’Italia.

Le due voci, quella del vivo e quella del morto, ci dicono di un intenso lavoro che era in corso in Italia, con tutti i mezzi (le loro parole ci dicono: legale e illegale) che quell’intenso lavoro si chiamava commissione Mitrokhin, che ha avuto due protagonisti di spicco, Scaramella e Guzzanti, ciascuno dei quali compare in momenti diversi accanto all’uomo appena eliminato.

Che cosa stavano facendo, quando le due ex spie sovietiche li hanno visti lavorare da appartamenti «coperti» basi segrete o comunque non identificate, scortati da personale che poteva o no essere dello Stato, spendendo somme che potevano o no essere legali, svolgendo una funzione che poteva o no essere compatibile con i codici italiani?

La risposta c’è: l’ha data Silvio Berlusconi domenica mattina. Stavano combattendo per la libertà secondo le direttive del leader. Infatti quando si annuncia una crociata per la libertà, senza una sola frase di spiegazione (libertà individuale? libertà di mercato? libertà di parola o di espressione? libertà dei diritti umani? dei diritti civili? della integrità fisica?) significa che la minaccia è totale e che vi è un’altra parte (quella «comunista» che copre l’intero arco della opposizione a Berlusconi) che va eliminata perché impedisce la libertà. E va eliminata senza badare ai costi. Le due ex spie russe vedono passare somme ingenti. E va eliminata senza badare ai mezzi. Le due ex spie russe sono state arruolate facendo loro credere che avrebbero denunciato i delitti di Putin. Va eliminata senza badare ai rischi. Molte delle cose dette dalla ex spia Litvinenko devono essere state inavvertitamente passate «all’amico Putin». «Mi sono accorto che siamo stati usati», dice a la Repubblica l’ex spia Limarev, quello finora sopravvissuto.

La Commissione Mitrokhin deve essere stata uno strumento di lotta estrema e - avranno pensato i protagonisti - a momenti disperata, per la libertà, se si è pensato di creare una istituzione talmente anomala per un regolare Parlamento democratico, un organismo di indagine senza limiti e senza frontiere, pur di mettere con le spalle al muro i nemici la cui sopravvivenza politica è stata giudicata non tollerabile.

Del resto, come si ricorderà, accanto alla commissione Mitrokhin (di cui adesso finalmente si può rivendicare la natura non ridicola e non grottesca, che invece molti, in buona fede avevano creduto di vedere in quella strana avventura allora non decifrata) è scattata subito anche la commissione Telekom Serbia.

Il suo teste chiave, che avrebbe dovuto incastrare Prodi, Fassino e Dini, è risultato un noto imbroglione internazionale ed è finito in prigione prima che il presidente di quella commissione e i vari illustri avvocati che lo scortavano avessero il tempo di redigere una plausibile relazione finale.

Messe l’una accanto all’altra, le due commissioni - che lasciano un segno tremendo nella vita parlamentare italiana - svelano come si conduce la lotta del partito unico della libertà di cui ci ha parlato Berlusconi a Montecatini.

Una delle due commissioni avrebbe dovuto eliminare i leader dell’opposizione. L’altra aveva il compito di colpire nel mucchio, cercando di estrarre quanti più nomi di indiziati da perseguire. Ma senza escludere punti di congiunzione e sovrapposizione fra i due strumenti di lotta per la libertà. Anche la Mitrokhin cercava legami fra Prodi e il Kgb (o fra Prodi e il rapimento di Moro). E persino fra l’azienda Olivetti, sospetta di Ulivismo, e il Kgb.

Ed entrambe le ex spie sovietiche, che nel Kgb, ai tempi del primo Putin, devono averne visti di eventi incredibili - hanno raccontato agli intervistatori di Repubblica il loro disorientato stupore nello scoprire che la commissione che li aveva arruolati non lavorava contro la malavita e le mafie, ma contro l’opposizione italiana. In entrambi i documenti, finora i primi che abbiano fatto davvero luce sul febbrile lavoro Scaramella-Guzzanti, i due ex agenti dicono di essersi resi conto che il fine grottesco e ad essi estraneo per cui erano stati arruolati non li esentava affatto dal pericolo.

A quanto ci dicono, essi accettavano di correre quel pericolo per smascherare, con l’aiuto di una legittima commissione parlamentare italiana, il peggio del pericolo Putin.

Uno dei due dice di avere capito l’errore quando ha visto in televisione Berlusconi intento ad abbracciare e baciare, e lodare come un riferimento della sua vita, «l’amico Putin».

L’altro, forse, avrà rivisto come in flash la sua incredibile esperienza italiana quando, invece di far luce sulle stragi cecene, volevano fargli inchiodare Pecoraro Scanio o Umberto Ranieri al loro passato di spie sovietiche.

Avrà rivisto i misteriosi Suv «guidati da agenti della polizia penitenziaria italiana» che li prelevavano negli aeroporti e li portavano in appartamenti senza identificazione, dove assistevano alle continue telefonate fra un leader (Scaramella) e l’altro (Guzzanti) con accenni deliberati e pesanti al vertice del sistema politico americano. Avrà rivisto la quantità di denaro che si riversava in quelle teatrali operazioni. E la quantità di uomini che, intorno alla commissione Mitrokhin, vedevano in azione e in movimento, senza capire perché.

Ma in punto di morte, e di una morte così atroce, non si può sorridere.

Suggerisco che non ne sorridiamo neppure noi, nonostante certi aspetti vistosamente ridicoli (e - per un italiano - umilianti) della vicenda.

Non possiamo sorridere perché la libertà che Berlusconi voleva «difendere» con gli strumenti della commissione Telekom Serbia e della commissione Mitrokhin, in realtà era nostra, la libertà dell’Italia, attaccata da italiani con uomini e mezzi in stile Pinochet. Ricordate quando l’abbiamo detto per la prima volta, tanti anni fa, su questo giornale. Sembrava una bestemmia e come tale è stata trattata. Ora rileggete ciò che Limarev e l’assassinato Litvinenko hanno detto a Repubblica e domandatevi se c’è niente, in ciò che loro descrivono della loro esperienza come «consulenti» della commissione Mitrokhin, che ricordi una democrazia e uno Stato di Diritto.

Non possiamo sorridere perché c’è un cadavere lungo questo percorso. Ed è presente per un caso strano e ancora da spiegare, sul luogo e nel tempo del delitto, un personaggio di primo piano della commissione Mitrokhin.

Ora anche l’ex presidente di quella commissione (che non corrisponde in nulla a una istituzione della Repubblica in base alla Costituzione), afferma di essere in pericolo.

Se è vero, o anche se esiste il minimo dubbio, chiediamo che sia protetto. Lo diciamo volentieri da questa «testata omicida», che è stata dichiarata tale per avere definito «regime» il tempo in cui si sono svolte le avventure ora narrate dalle testimonianze di Limarev e confermate dalla morte di Litvinenko. Se un regime è disporre di tutti gli strumenti, dal conflitto di interessi alle leggi ad personam, dall’uso arbitrario delle polizie regolari a quello delle polizie parallele, dall’arruolamento di personaggi misteriosi con sigle misteriose (chi è in realtà Mario Scaramella, l’uomo che con soldi italiani va per il mondo ad arruolare agenti di servizi di altri Paesi da usare contro l’Italia e si trova per caso presente alla morte di uno di essi?) all’uso francamente illegale di istituzioni della Repubblica come le commissioni parlamentari, allora tristemente e orgogliosamente confermiamo: è stato un regime.

* l’Unità, 27.11.2006


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