Parlare in parabole
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “Témoignage chrétien” n° 3452 del 7 luglio 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Esprimiamo la nostra fede in una teologia concettuale nella quale la logica ha definito una volta per tutte i concetti, razionalizzato le dimostrazioni, e misurato le affermazioni. Nelle omelie della domenica, sentiamo questa sorveglianza permanente della teologia. Si diffida dell’eloquenza e dei sentimenti per restar fedeli a ciò che si chiama dottrina. Lo stesso popolo cristiano è abituato a questi discorsi, che gli spiegano l’inesplicabile, gli descrivono l’invisibile, e troppo spesso lo cullano e l’addormentano in un sogno mille volte visitato.
È strano che l’omelia sia per troppi preti una penitenza a cui sono contenti di sfuggire. Oppure un dovere che devono osservare. Il rituale liturgico sembra proprio diffidare del celebrante, obbligandolo a seguire determinate rubriche e a fare determinate letture. Sembra che un buon ministro sia uno che non inventa nulla, non aggiunge nulla, che scompare dietro parole eterne, misteriose oggi nella nostra lingua come lo erano ieri in latino.
Sappiamo che il concilio, molto timidamente, aveva aperto qualche spazio di improvvisazione, di iniziativa, di adattamento alle situazioni concrete. Sono bastate alcune audacie discutibili o innovazioni di cattivo gusto perché ci si affrettasse a ricordare la sottomissione alla consuetudine. Non si gioca con la Parola. La si è scritta. La si è messa in scena in una liturgia. La si è congelata in un sapere. La Chiesa che è nata dalla forza vitale della Parola ne è diventata troppo spesso la guardiana diffidente. Succede che alcune persone pensino che rinchiudere in un tabernacolo il corpo offerto e nel reliquiario della teologia il fuoco del Vangelo sia la condizione primaria della nuova evangelizzazione.
Certo questa descrizione è caricaturale. Ovunque ci sono ancora preti insoddisfatti di questo ruolo di “degni esecutori”. Sarebbe disonesto dimenticarli. Ma sarebbe disonesto anche tacere il sospetto di cui troppo spesso l’istituzione li circonda. Non è necessario far riferimento ai preti operai di ieri o alla teologia della liberazione. Non solo Roma sta all’erta!
Il contrasto è particolarmente forte con le parabole di Gesù. Raccontava delle storie, e possiamo immaginare che la folla venuta ad ascoltarlo non cercasse un corso di teologia. I piccoli riassunti che gli ascoltatori hanno conservato di questi racconti ci lasciano intravedere la prossimità della Parola con le parole e le esperienze di tutti i giorni. Talvolta sfuggono al quotidiano per entrare nell’universo dei “C’era una volta un re”... ma restano sempre accessibili all’immaginazione della gente semplice che li ascolta. È impossibile costruire un mondo coerente con queste briciole di discorso.
Lo scopo manifesto e il risultato evidente delle parabole è far smuovere un pochettino lo sguardo e il cuore di coloro che le ascoltano. Aprire le folle alla sorpresa e alla novità di una Buona Novella che salva invece di giudicare, che apre alla speranza in un orizzonte chiuso, che fa saltare i confini e i pregiudizi, che dà a Dio un volto di Padre, questa è la missione delle parabole.
Sono diventate troppo rare nelle prediche delle nostre chiese. Capita che dei film, dei reportage, dei romanzi, delle biografie riescano meglio delle nostre omelie a far sentire la novità e la meraviglia del Vangelo. Il Seminatore deve uscire per seminare!