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STORIA DELLA FILOSOFIA: NEW REALISM o, che è lo stesso, NEW IDEALISM. Dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Foucault ...

"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO). Una nota sul tema - di Federico La Sala

(...) in Europa come nel mondo, ciò che oggi si aggira sempre più forte è il programma di Kant (come di Marx e dello stesso Lenin), il coraggio di sapere e l’uscita dallo stato di minorità (...)
martedì 13 settembre 2011
[...] Ferraris aspira a proporsi - visto che "al posto di individui maturi s’avanzan strani bambocci: adulti mostruosi e mai cresciuti che prendono la vita come un grande gioco, una parodia dei trastulli dei più piccoli"
(Francesco Cataluccio) - come il teorico e il teologo dell’Immaturità di massa e ... del berluscattolicesimo aggressivo e galoppante? Boh?! E Bah?! "Con nostalgia e rispetto, ma anche senza nasconderne le debolezze, le macchinosità, i cetrioli e le Trabant", Goodbye (...)

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> "NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. --- IL CONFLITTO DELLE FACOLTA’ (KANT, 1798) E IL GRANDISSIMO BISOGNO DELL’ERMENEUTICA (di Maurizio Ferraris - L’illusione economica).

venerdì 18 gennaio 2013

L’illusione economica

Finito il mondo di Stranamore e degli scudi spaziali, è la Borsa il luogo dove si definisce la verità

Qualunque dottrina che volesse presentarsi come collezione di nudi fatti si ridurrebbe a mero arbitrio

di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 12.01.2013)

Nel Conflitto delle facoltà (1798) Kant mette in scena una contesa tra, da una parte, la medicina, la giurisprudenza e la teologia, che definisce "facoltà superiori" (perché offrivano sbocchi di lavoro, compresa la teologia che avviava alla professione di pastore) e, dall’altra, la "facoltà inferiore" rappresentata, manco a dirlo, dalla filosofia. Kant si augurava che sarebbe venuto il giorno in cui la facoltà inferiore avrebbe preso il sopravvento. Non poteva sapere che un suo contemporaneo, Adam Smith, professore di filosofia morale a Glasgow, con l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) aveva gettato le basi di quella che oggi è la facoltà superiore per eccellenza, che detta legge anche al diritto, alla medicina e alla teologia: l’economia.

In un certo senso, la storia degli ultimi due secoli è la vicenda della ascesa politica di questa scienza, i cui cultori diventano consulenti del sovrano e poi sovrani essi stessi. Ancora per tutto il Novecento, si direbbe che la tecnica propedeutica alla politica rispetti la tripartizione delle funzioni della tradizione indoeuropea studiata da Dumézil: guerrieri, sacerdoti (ossia anzitutto tutori delle leggi) e agricoltori. Tolti gli agricoltori (per i quali solo i fisiocrati e Tolstoj avevano immaginato un posto di comando), la leadership va naturalmente alle prime due categorie.

Si pensi ai responsabili della politica all’inizio del secolo scorso. Ai vertici c’erano ancora dei sovrani per diritto ereditario e soprattutto molti militari. Accanto a loro c’erano i giuristi, che traevano il loro potere dall’essere insieme uno strumento tecnico dell’attività legislativa sia un’istanza di controllo, tanto a livello nazionale, quanto - in organizzazioni come le Nazioni Unite - internazionale. Così, tra i presidenti della Repubblica italiana (compreso De Nicola) abbiamo sette laureati in giurisprudenza, due in economia, due in lettere. La prevalenza dei giurisprudenti si ritrova anche tra i presidenti Usa del dopoguerra: sei laureati in legge, quattro militari, un attore, un economista.

Ma non è difficile prevedere che fra qualche anno molti dei premier e dei capi di stato saranno economisti. Forse possiamo anche datare il momento della svolta. Correva l’anno 1992, durante la campagna di Clinton contro Bush padre, e lo slogan clintoniano era: «The economy, stupid!». Solo tre anni prima non sarebbe stato uno slogan praticabile: perché non c’era nessuna possibilità di universalizzare l’economia, vista l’ovvia persistenza dei due blocchi, uno dei quali subordinava apertamente l’economia alla politica. Scomparso quel blocco, sembra che non si possa fare politica senza economia, e soprattutto l’economia è diventata ciò con cui la politica deve misurarsi come di fronte a una oggettività ineludibile.

Perché il punto è proprio questo. L’economia non trae prestigio dalla propria efficacia terapeutica (come avviene, poniamo, per la medicina), ma dall’idea che è lei a stabilire il principio di realtà con cui si devono misurare i politici e i cittadini. Finito il mondo di Stranamore e degli scudi spaziali, della competizione a colpi di razzi e astronavi, finito il mondo del diritto internazionale come alternativa alla guerra, il luogo in cui si definiscono i valori, a partire ovviamente da quello pregiato della oggettività, della realtà e della verità è il mercato finanziario. Un mercato, che, per inciso, è stato l’autentico veicolo della globalizzazione: un impero in cui letteralmente non tramonta mai il sole. Nel 1886, in Al di là del bene e del male, Nietzsche aveva scritto che «i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l’"a che scopo" degli uomini (...) Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è - volontà di potenza». Questi filosofi non si sono fatti avanti, e in tutta sincerità non ne sentiamo la mancanza. Ma - nell’epoca dello spread e delle agenzie di rating - molto di quello che dice Nietzsche sembra applicarsi al ruolo dell’economia come principio di realtà dell’epoca contemporanea.

Tuttavia siamo sicuri che l’economia sia il candidato più attendibile a incarnare il principio di realtà? Se c’è un ambito in cui vige il principio "non ci sono fatti, solo interpretazioni", questo è proprio la sfera dell’economia. Così, in Creare il mondo sociale (Raffaello Cortina, 2010), il filosofo americano John Searle non esita a dire che la recente crisi economica dimostra come il denaro sia frutto di una massiccia immaginazione. Come dire che se c’è un campo in cui i fatti sembrano di gran lunga superati dalle interpretazioni, questo non è, come un po’ futilmente sostenevano molti epistemologi del secolo scorso, la fisica, ma l’economia. Un ambito in cui si dice, per esempio, che "non ci si può più permettere lo stato sociale" con la stessa sicurezza con cui diremmo che la terra ruota intorno al sole o che la fotosintesi produce glucosio e ossigeno, sebbene (lo ricorda recentemente Federico Rampini in Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale. Falso!, Laterza) si tratti, molto più che di un fatto, di una interpretazione.

Ora, esattamente come il diritto (cioè come il suo immediato predecessore in quanto tecnica e principio di realtà della politica), l’economia ha a che fare con degli oggetti sociali, ossia con oggetti che dipendono dai soggetti. In fondo, come ricorda a giusto titolo Giuseppe Zaccaria in La comprensione del diritto (un altro illuminante libro uscito recentemente da Laterza) la giurisprudenza sarebbe un mero arbitrio se si volesse presentare come una collezione di nudi fatti non accompagnati da interpretazioni. Così, nessuno certo si sognerebbe di negare che esista una realtà economica, proprio come esiste una realtà giuridica.

Ma è anche necessario sapere che questa realtà, così come tutti gli ambiti in cui si assiste alla produzione di oggetti sociali, deve essere sistematicamente interpretata e relativizzata. È qui, e non nel mondo degli oggetti naturali, che c’è un grandissimo bisogno di ermeneutica, ed è singolare che ce ne sia così poca, dopo tutto il turbinio di interpretazioni che ha caratterizzato la filosofia del secolo scorso.


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