Globalmente fuori di testa
Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri)
di Andrea Tagliapietra (il Fatto/Saturno, 16.09.2011)
PARANOIA, PRIMA DI ESSERE un termine della psichiatria moderna dal significato tanto ampio quanto scientificamente controverso, è una parola greca, composta dalla preposizione parà, che può essere resa con il nostro “oltre”, e dal nome del pensiero, il nous dei filosofi. Così nella paranoia risuonerebbe la metafora di quell’andar fuori di testa che traduce, nel gergo quotidiano, l’evento della pazzia. Tuttavia parà in greco significa anche “presso”, “accanto”, sicché il termine paranoia ci suggerisce una più sottile e inquietante etimologia: quella di una follia che, lungi dall’appariscenza iperbolica dell’eccesso furioso o dalla lunatica lontananza della demenza, sta “a fianco” della ragione, ne segue i passi come un’ombra, finanche adottandone l’ordine, la struttura sistematica e l’arrogante pretesa di poter fornire sempre una risposta. Come avviene, per esempio, nel lucido delirio dell’Otello di Shakespeare, là dove, suggeriva il filosofo Stanley Cavell, cogliamo la personificazione della ragione alle prese con il problema dell’altro. La razionalità al quadrato dello scetticismo, allora, sarebbe una specie di paranoia della ragione, che rifiuta la propria imperfezione, i limiti interni ed esterni che la istituiscono, conseguendo un’amara vittoria di Pirro: il ripudio stesso del sapere.
Ritroviamo il Moro di Venezia in chiusura del volume di Luigi Zoja Paranoia. La follia che fa la storia (Bollati Boringhieri). Otello è la vittima tormentata di quel sospetto radicale - il sussurro di Iago - che nega che gli altri siano quello che sembrano. La sua gelosia descrive la scena moderna della paranoia come un delirio metodico e coerente, che si evolve lasciando integre le restanti funzioni mentali. Così la paranoia ci appare quasi una «continuazione del nostro pensare normale, più precisamente del nostro bisogno di spiegazioni».
All’inizio del ’700 il Robinson di Defoe afferma di essersi sentito più solo per le vie di Londra che nella sua isola deserta, rivelandoci la radice moderna della paranoia. Quando le solitudini impaurite e sospettose dei singoli fanno gruppo e si appellano ad ataviche identità rassicuranti, alle comunità immaginarie del sangue e del suolo, ecco che la paranoia passa dal piano individuale e clinico a quello culturale e collettivo. Essa è quella banalità del male che ha scritto le pagine più sanguinose della storia del XX secolo, tragicamente segnato dalle personalità paranoidi di Hitler e di Stalin, e dominato dai grandi dispositivi paranoici della massificazione e della mercificazione consumistica.
La paranoia collettiva ha, per Zoja, la caratteristica virale di un’“infezione psichica” per cui una società o un gruppo rinuncia alle proprie responsabilità, trasferendo con una “proiezione persecutoria” ogni colpa sui “nemici”. Essa attraversa le guerre calde e fredde, i nazionalismi, i populismi, i fascismi e i comunismi. Giunge fino a quell’11 settembre 2001 in cui alla paranoia dei kamikaze islamici si è contrapposta quella della “guerra al terrore” di G.W. Bush, puntellata da un tipico castello di bugie paranoiche, ossia resistenti a ogni smentita, come quella delle famigerate armi di distruzione di massa. Una volta decisa l’azione, a lungo bloccata dall’esitazione del dubbio, la paranoia scatta come la molla di un meccanismo automatico, scoprendosi in preda a una fretta inarrestabile, a un’accelerazione che travolge tutto e, quindi, anche se stessa. Come sembra accadere nella catastrofe finanziaria che stiamo vivendo.
Qui è forse possibile, portando il nostro discorso oltre il libro di Zoja, intravvedere uno sviluppo esponenziale della paranoia collettiva connesso con l’indifferenza emotiva della ragione calcolatrice e con il fenomeno spettrale della globalizzazione, che rende gli altri esseri viventi tutt’altro che “prossimi”, ma anzi piuttosto simili a quel mandarino cinese profetizzato da Balzac, di cui possiamo provocare impunemente la morte lontana, traendone in cambio lucrosi vantaggi. Così, in nome di un sistema economico che confligge con la natura finita delle risorse del pianeta, dell’umanità stessa e delle sue differenze concrete, si inventano “nemici della crescita” o fantomatici “speculatori” per spiegare la violenza di una crisi di cui, in ultima analisi, gli unici responsabili sono i medesimi attori umani divenuti, come diceva quel Marx che sopravvive a ogni marxismo, inconsapevoli maschere del capitale.