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> Jacques Derrida, "Abramo, l’altro" ----- L’essere fuori luogo. Derrida accosta il nostro tempo a quello ́sconnesso di Amleto. Epoca ambigua dove tutto è fuori asse (di Beppe Sebaste).

giovedì 6 ottobre 2011

L’essere fuori luogo secondo Derrida

Il filosofo francese accosta il nostro tempo a quello ́sconnesso di Amleto. Epoca ambigua dove tutto è fuori asse

di Beppe Sabaste (l’Unità, 09.10.2010)

In un’epoca in cui sempre più violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura e la sua fama una sorta di barriera difensiva sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare.

Nel 2004 Derrida aderì a un appello «contro la guerra all’intelligenza» lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso disse Derrida «designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia».

Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del «presente vivente» con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes (...).

DA SHAKESPEARE A PHILIP DICK

Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che «The time is out of joint». Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e «della specie» si traggono soprattutto oggi le conseguenze.

È il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli «Stati-fantasma», come la mafia, il consorzio della droga, ecc.

Scrive Derrida: «(I)l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto». Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare (...)fino a quella magniloquente di Gide, «cette époque est déshonorée». Altrettante versioni esistono in italiano. Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint.

Interessante è la variante del traduttore italiano per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: «Tempo fuori luogo». Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi.

Narra di quella situazione così letteraria del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie.

Tralascio la trama. Il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei «mondi possibili», è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell’homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come «sentirsi» a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, «infestare», è una delle non tantissime modalità.

Il «fuori luogo» dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida.

Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come criminale, poiché «essere clandestini» oltre a un pleonasma è un reato). Il fuori luogo, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (forse per questo abbiamo bisogno di una home page). È una dislocazione (o «delocazione», come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla speculazione e la scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi).

La disgiuntura, il «tempo fuori luogo», dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, «faticosamente, dolorosamente, tragicamente, (Di) un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia». Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un guest-writer. Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite.

(...) In realtà è un’esperienza molto antica. È quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del «parlare con i morti», su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, «romanzo», e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita, in différance, in Derrida.

Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo. Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è «la vita più intensa che sia possibile».


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