Inviare un messaggio

In risposta a:
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Marx, Kantorowicz, Freud e Mandela ...

GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo" - di Federico La Sala

ALLEGATi, PDF: NOTA SULLE TESI DI FILOSOFIA DELLA STORIA (W. BENJAMIN) E SULL’EUROPA E LA "SAGGEZZA STRANIERA" (ARNALDO MOMIGLIANO).
sabato 11 maggio 2024

In risposta a:

> GUARIRE LA NOSTRA TERRA. --- NATI A UN INCROCIO DI MARGINI (di Tony Judt - L’identità è un mito, un brano da "Lo chalet della memoria").).

venerdì 25 novembre 2011

L’identità è un mito

Anticipiamo un brano del memoir di Tony Judt “Lo chalet della memoria” (Laterza) fatto negli ultimi anni della sua malattia per "The New York Review of Books". Ora esce in Italia.

di Tony Judt (la Repubblica, 25 novembre 2011)

"Identità" è una parola pericolosa. Al giorno d’oggi non ha alcun uso dignitoso. In Gran Bretagna i mandarini del New Labour - non contenti di aver installato più telecamere di sorveglianza a circuito chiuso di qualsiasi altra democrazia - hanno tentato (senza successo, finora) di cogliere l’occasione della "guerra al terrorismo" per introdurre la carta d’identità obbligatoria. In Francia e nei Paesi Bassi il "dibattito nazionale" sull’identità, stimolato in modo artificioso, offre un debole pretesto per sfruttare politicamente l’avversione nei confronti degli immigrati - e un evidente sotterfugio per sviare le inquietudini dovute alla situazione economica sulle minoranze. Nel dicembre 2009 la politica dell’identità in Italia si è ridotta a una campagna di perquisizioni domiciliari a tappeto nella zona di Brescia per individuare le facce scure e indesiderate, mentre il comune prometteva spudoratamente ai cittadini un "bianco Natale".

Questa idea dell’identità mi è sempre stata estranea. Sono cresciuto in Inghilterra e l’inglese è la lingua in cui penso e scrivo. Londra - il mio luogo di nascita - continua a essere una città a me familiare nonostante tutti i cambiamenti che ha subìto nel corso degli anni. Conosco bene il paese, condivido persino alcuni pregiudizi e alcune predilezioni nazionali. Ma quando penso o parlo degli inglesi, istintivamente uso la terza persona: non mi identifico con loro.

Ciò può essere dovuto in parte al fatto che sono ebreo: quando ero piccolo gli ebrei erano l’unica minoranza significativa nella Gran Bretagna cristiana ed erano oggetto di un moderato ma inconfondibile pregiudizio culturale. D’altro canto, i miei genitori si tenevano ben a distanza dalla comunità ebraica organizzata. Non festeggiavamo le ricorrenze ebraiche (ho sempre avuto un albero di Natale e le uova di Pasqua), né seguivamo le prescrizioni dei rabbini, e ci identificavamo con il giudaismo soltanto durante le cene del venerdì a casa dei nonni. Grazie all’educazione scolastica inglese, conosco la liturgia anglicana meglio di molti riti e pratiche del giudaismo. Se sono dunque cresciuto ebreo, decisamente l’ho fatto come un ebreo non ebreo.

Che dire dell’identità politica? Da bravo figliolo di ebrei autodidatti cresciuti all’ombra della rivoluzione russa, ho acquisito sin da bambino una conoscenza superficiale dei testi marxisti e della storia del socialismo: quanto basta per vaccinarmi contro i ceppi più virulenti della Nuova Sinistra degli anni Sessanta e rimanere al tempo stesso saldamente radicato nell’area socialdemocratica. Oggi, in qualità di "intellettuale professionista" (di per sé un’etichetta inutile), sono associato a quel poco che resta della sinistra.

Ma nell’ambiente universitario molti colleghi mi guardano come se fossi un dinosauro reazionario. Ed è comprensibile: insegno una materia che si basa sul lascito testuale di europei defunti da tempo; tollero poco e male la "libera espressione della personalità" al posto della chiarezza; considero l’impegno un surrogato scadente dei risultati concreti; tratto la mia disciplina come se dipendesse innanzitutto dai fatti, non dalla "teoria"; e sono scettico riguardo a buona parte di ciò che oggi passa per erudizione storica. Secondo i costumi accademici prevalenti, sono un incorreggibile conservatore. Allora com’è la faccenda?

Preferisco il margine: il luogo in cui paesi, comunità, fedeltà, affinità e radici si incontrano e si scontrano casualmente - dove il cosmopolitismo non è tanto un’identità quanto la normale condizione di vita. Luoghi del genere una volta abbondavano. A ventesimo secolo inoltrato molte città ospitavano una pluralità di comunità e di lingue, spesso in reciproco antagonismo, a volte in pieno conflitto, ma in qualche modo coesistenti. Sarajevo era una di esse, Alessandria un’altra. Tangeri, Salonicco, Odessa, Beirut e Istanbul erano tutte città di questo tipo, e lo stesso vale per cittadine più piccole, come Chernovitz e Užgorod. Secondo i parametri del conformismoamericano, New York ricorda alcuni aspetti di queste città cosmopolite del passato: questo è il motivo per cui ci vivo.

Di sicuro c’è una punta di autocompiacimento in chi afferma di essere sempre al margine, sull’orlo. È un’affermazione che può essere fatta soltanto da un certo tipo di persone, che esercitano privilegi molto particolari. La maggior parte della gente il più delle volte preferisce evitare di mettersi in evidenza: non è sicuro. Se si vive in mezzo agli sciiti, è meglio essere sciita. Se in Danimarca sono tutti alti e bianchi, chi - potendo scegliere - preferirebbe essere piccolo e nero? E persino in una democrazia aperta bisogna avere un carattere piuttosto ostinato per andare intenzionalmente controcorrente all’interno della propria comunità, soprattutto se piccola.

Ma se si è nati a un incrocio di margini e - grazie alla singolare istituzione della docenza universitaria di ruolo - si è liberi di rimanerci, mi pare un piedistallo decisamente vantaggioso al quale ancorarsi. Che ne sa dell’Inghilterra chi soltanto l’Inghilterra conosce? Se l’identificazione con una comunità d’origine fosse fondamentale per il senso che attribuisco a me stesso, forse esiterei prima di criticare severamente Israele, lo "Stato ebraico", il "mio popolo". Gli intellettuali che hanno un senso di affiliazione biologica più sviluppato si autocensurano istintivamente: ci pensano due volte prima di lavare i panni sporchi in pubblico.

Stiamo entrando, temo, in un’era problematica. Non saranno soltanto i terroristi, le banche e il clima a sconvolgere il nostro senso di sicurezza e di stabilità. La globalizzazione stessa - la terra "piatta" di tante fantasie ireniche - sarà fonte di paura e incertezza per miliardi di persone, che si rivolgeranno ai loro leader in cerca di protezione. Le "identità" diventeranno rigide e meschine, via via che l’indigente e lo sradicato batteranno contro le mura sempre più alte delle comunità recintate e sorvegliate, da Delhi a Dallas.

Essere "danese" o "italiano", "americano" o "europeo" non sarà soltanto un’identità: sarà un rimprovero e un secco rifiuto per gli esclusi. Lo Stato, lungi dallo scomparire, potrebbe cominciare a dare piena prova di sé: i privilegi della cittadinanza, la tutela dei diritti di residenza dei titolari di permessi di soggiorno saranno sventolati come atout della politica. Nelle democrazie consolidate i demagoghi intolleranti pretenderanno "prove" - di conoscenza, di lingua, di comportamento - per stabilire se i disperati in arrivo meritino di avere un’"identità" britannica, olandese o francese. Già lo fanno. In questo mirabile nuovo secolo sentiremo la mancanza dei tolleranti, dei marginali: le persone sull’orlo. La mia gente.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: