La giustizia presa a sberle
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 14.01.2012)
In Italia la Camera, per “salvare” dall’arresto un suo componente, prende a sberle la magistratura farfugliando di “fumus persecutionis” e altre amenità pur di rendere meno indigeste strategie che riducono la politica a baratto. In Italia la Camera, per “salvare” dall’arresto un suo componente, prende a sberle la magistratura farfugliando di “fumus persecutionis” e altre amenità pur di rendere meno indigeste strategie e alleanze che riducono la politica a mortificante baratto. Nello stesso tempo, a Londra, lord Phillips di Worth Matraves, presidente della Suprema Corte, ha stabilito che nella sua aula chiunque sarà libero di abbandonare gli antichi paramenti. Basta quindi con parrucche e forse anche con toghe e bavaglini di pizzo. La modernità contro una tradizione che risale al Seicento. Con la motivazione (così Andrea Malaguti su La Stampa) che “il processo va reso accessibile a chiunque”; - deve essere “un confronto tra uomini, non tra raffinati aristocratici scelti per rappresentare una plebaglia muta”.
NON PORTANO parrucche i deputati italiani che a maggioranza hanno “salvato” l’onorevole Cosentino e prima ancora avevano disinvoltamente approvato, tra l’altro, leggi “ad personam” finalizzate a sottrarre il processo al giudice naturale (legge Cirami), oppure ad allontanare indefinitamente nel tempo la celebrazione di un dibattimento (lodo Schifani).
Ecco allora che anche senza una parrucca in testa si può essere “parrucconi”, cioè personaggi arroccati intorno ai propri privilegi, incapaci di corrispondere adeguatamente alla pretesa di equità e giustizia che i cittadini esprimono appellandosi al principio di legalità, della legge eguale per tutti. Finendo così per considerare i cittadini, invece che sovrani (la sovranità appartiene al popolo), appunto una “plebaglia muta”: da liquidare con stanchi ritornelli sui teoremi dei magistrati, sul loro accanimento persecutorio contro il politico di turno e via salmodiando all’infinito.
Una politica, questa, che sembra amare il masochismo, perché non fa che gonfiare il discredito e la sfiducia che già dilagano nei suoi confronti. Si potrebbe persino essere tentati di chiedere ai parlamentari italiani di indossare proprio le bianche parrucche (rigorosamente di crine di cavallo) che in Inghilterra si vogliono abolire: per coerenza, vista l’atmosfera un po’ irreale e molto, molto vecchia (precostituzionale?) in cui certe decisioni della maggioranza della Camera vanno a incastonarsi. E chissà mai che le parrucche - per assurdo - non contribuiscano al recupero di alcuni valori.
PERCHÉ oggi è certamente roba da medioevo, ma storicamente quest’abbigliamento - a volte proprio con la sua ridondanza - ha avuto una funzione precisa: ricordare e riaffermare il noto paradosso del costituzionalista inglese, secondo cui l’esercito e la flotta dell’Inghilterra hanno una sola funzione, rendere possibile che il giudice emani le sue sentenze. Perché la legalità è il cemento della convivenza civile, è il freno a egoismi e onnipotenze, è il prevalere delle regole condivise. E con una parrucca in testa, forse, diventerebbe più difficile indulgere all’idea - terribilmente italiana - di una giustizia “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé.
Il network che salva i casalesi
di Nando Dalla Chiesa (il Fatto, 14.01.2012)
Ma è stato “solo” un istinto di casta quello che ha portato il Parlamento a sottrarre Nicola Cosentino alle leggi della Repubblica? A salvarne uno per completare il suicidio collettivo? Dietro, in realtà, c’è dell’altro. Ma è stato “solo” un istinto di casta quello che ha portato il Parlamento a sottrarre Nicola Cosentino alle leggi della Repubblica? A salvarne uno per completare il suicidio collettivo? Chi conosce un po’ storia e personaggi del Parlamento italiano sa quanto questo istinto sia potente. L’idea che domani possa capitare a me o a te, a qualcuno dei nostri. L’idea che la nostra dignità costituzionale ci ponga al di sopra delle leggi. L’idea che tutto questo si possa chiamare “garantismo”. Lo stesso a cui non per nulla si è appellata la Lega del cappio e di Roma ladrona. Ma dietro il caso Cosentino c’è altro. C’è la storia di lealtà e solidarietà che si radicano nelle fibre più intime del potere. Fibre invisibili, inconfessate. E forse, per iniziare a capire, conviene tornare a quella riunione segreta venuta a galla nel luglio del 2010 e che proiettò sull’Italia l’immagine di qualcosa di simile a una nuova P2; una P3, come si disse. In quella riunione a Roma si erano trovati in otto. Ripassiamo i nomi. C’era Denis Verdini, vero coordinatore del Pdl, referente della cricca dei costruttori. C’era Marcello Dell’Utri, ispiratore del progetto di Forza Italia e poi condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
C’ERA FLAVIO Carboni, uomo P2, con la sgradevolezza di essere stato condannato in primo grado (ma poi assolto) per l’omicidio del “banchiere di Dio” Roberto Calvi. C’era il governo, nella persona del magistrato e sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. C’era un altro esponente del ministero della Giustizia, nella persona di Arcibaldo Miller, capo degli ispettori ministeriali. Poi Antonio Martone, avvocato generale della Cassazione e già presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Infine c’erano due signori campani sconosciuti alla quasi totalità dei cittadini italiani. Uno era Pasquale Lombardi, l’altro Arcangelo Martino.
Il primo autonominatosi giudice tributario, in quanto membro di commissioni tributarie, ed ex sindaco di un paese irpino. Il secondo “imprenditore” e piuttosto anonimo ex assessore socialista. Che cosa accomunava i due? Essere stati tra gli sponsor più intransigenti della candidatura di Cosentino a presidente della Regione Campania. Bene. Che ci facevano insieme persone tanto diverse? Note e sconosciute, interne ed esterne alle istituzioni? Secondo quanto sostengono i carabinieri, si stavano occupando di due cose: a) pilotare nel verso giusto la sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano; b) salvare la Mondadori dal suo spaventoso debito verso l’erario. Insomma, stavano lavorando per “Cesare”, come lo chiamavano, che sempre secondo i carabinieri era Silvio Berlusconi. Uno scenario inquietante: magistrati misti a personaggi che, direttamente o indirettamente, evocano comunque all’osservatore l’ombra, nell’ordine, della Cricca, di Cosa Nostra, della P2 e dei Casalesi. Tutti insieme per concordare come influenzare l’organo supremo della giurisdizione repubblicana. Ecco, i due sponsor di Cosentino fanno parte di quel ristrettissimo nucleo di persone che in quel momento (nemmeno due anni fa) rappresenta il potere politico vero, un gradino sotto Cesare. Ne spartiscono e ne custodiscono i segreti. È a queste stanze che bisogna andare per capire le ragioni del suicidio di una classe politica. Al network micidiale di poteri che opera a Roma all’ombra dei Palazzi istituzionali, con i quali ha frequentazioni continue (Lombardi era un vero accalappiatore di alti magistrati e consorti in convegni “scientifici” da officiare in località di lusso).
DI QUA gli ambienti più contigui alla sfera illegale del Paese. Di là una pletora di magistrati distaccati ai ministeri, consiglieri di Stato, magistrati Tar, che amministrano i poteri di governo assai più dei sottosegretari e di quasi tutti i ministri, unica eccezione quelli che possono incidere sulle loro carriere. Questi due mondi si incrociano di frequente, non tutti con tutti, si capisce. Non sempre per progettare o commettere reati, a volte solo, “innocentemente”, per sistemare un figlio o trovare una casa. Ma garantendo sempre la possibilità di passare facilmente da un estremo all’altro del network.
Per capirsi: i Casalesi avranno anche dato un impulso formidabile alla fase della cosiddetta camorra-impresa, disseminando i loro capitali in attività economiche di ogni tipo in tutto il paese, da quelle immobiliari a quelle commerciali, e mescolandosi con ogni tipo di potere, accumulando un grande potere di ricatto. Ma è a quel network che bisogna andare. È quel luogo inafferrabile - abitato non dalle “multinazionali” ma da persone spesso mediocri e sconosciute - che unendosi allo spirito di casta ha rovesciato i pronostici salvando Cosentino. E ci ha consegnato questa terribile immagine dello Stato: carabinieri, polizia e magistrati (quelli regolarmente accusati dai colleghi del network di volere “far carriera”) che arrestano uno dopo l’altro tutti, ma proprio tutti, i capi dei Casalesi; e il Parlamento che mette in salvo il loro referente politico.